Roma. Sono seduto nell’ufficio del Kill Joy, messo a disposizione con la solita cortesia dal proprietario, di fronte a uno dei più leggendari chitarristi del Rock italiano: Federico Poggipollini. Fuori, intanto, stanno già montando il palco per la prima data del tour di Federico e dei suoi The Crumars (il nostro live report). Federico Poggipollini ha una carriera che dura da trent’anni sui palchi, ha scritto riff che sono ormai pietre miliari del Rock italiano ed è in continuo movimento con progetti musicali sempre nuovi e alternativi. Non è proprio facile condensare tutto quello che voglio chiedergli in poche di domande. Perché, oltre ad essere un chitarrista di classe, è pure un grande conoscitore di musica e appassionato di strumenti. Ok, aziono il registratore, e via con la prima domanda.
Partiamo dal principio. Ho letto tempo fa che ti sei appassionato alla musica grazie alla tua famiglia. Qual è stato il disco che ti ha fatto dire: voglio diventare un musicista?
C’è una parte della mia famiglia molto appassionata di musica; in particolare, mio nonno ascoltava cose che mi piacevano, tra cui Elvis, i Platters, Jerry Lee Lewis: insomma, i classici. Il disco che però mi ha travolto, vivendo l’atmosfera di Bologna tra la fine del ’77 e l’inizio del ’78, quindi in piena rivoluzione studentesca, è stato “Monotono” degli Skiantos. All’epoca, le band di richiamo nel cuore della città erano appunto gli Skiantos, i Windopen e i Luti Chroma, che si rifacevano un po’ alla scena inglese del punk.
Ho anche un ricordo indelebile di “Back in Black” degli AC/DC, “End of the Century” dei Ramones e “London Calling” dei Clash: album che mi hanno letteralmente sradicato e portato via. In città si sentiva il fermento; ricordo che uscirono anche dei libri che parlavano del movimento rock degli anni ’80. In uno di questi, Paolo Beltrando, raccontava la storia di quei ragazzi che si trovavano nelle sale e sentivano la necessità di tirar fuori cose legate al momento che stavano vivendo. C’era, diciamo, questa irruenza che mi ha coinvolto e che si rifaceva un po’ ai Sex Pistols, ai Ramones e ai Clash, insomma, all’anima del punk.
Hai anticipato una domanda che ti volevo fare, ricollegandomi anche, alla recente scomparsa di Fabio Testoni degli Skiantos. Un gruppo che tu hai omaggiato, nel tuo album “Canzoni Rubate” con una versione molto particolare del brano “Il Chiodo”.
In “Canzoni Rubate” ho cercato di raccontare, a distanza di anni, le canzoni che per me erano molto importanti, anche se non tutte erano particolarmente famose, come “Trappole” di Finardi, con cui ho collaborato. Da ragazzino, prima di iniziare a fare davvero questo mestiere, partecipai a un tour promozionale con Gianni Morandi; la sua canzone dell’epoca era “Varietà”. Ricordo un momento incredibile: Mario Lavezzi arrivò in studio e suonò davanti a me quella canzone per la prima volta. Ero davvero poco più di un ragazzo e rimasi talmente sconvolto da quel brano, che doveva assolutamente entrare in un mio album di cover.
Ho provato più volte a reinterpretare le canzoni degli Skiantos, che per me sono sempre stati fondamentali, ma non ce l’ho mai fatta. Conoscevo bene Freak Antoni, come conosco bene tutti gli Skiantos: per me sono stati un punto di riferimento. “Il Chiodo” è tratto da “Saluti da Cortina”, un album piuttosto sconosciuto. Riprodurre lo stile di Freak era impossibile, perciò ho cercato di reinterpretarlo in una chiave più vicina a Johnny Cash, tagliando anche alcune parti per adattarlo. Ho cercato a lungo un brano che fosse adatto a me, per poterlo riproporre in una chiave completamente stravolta. E te lo dico perché un giorno Fabio mi chiamò dicendo: “Fede, hai fatto una versione perfetta.” Non disse che era migliore della loro, ma aggiunse: “Hai tirato fuori una parte del testo che, purtroppo, nella nostra versione veniva un po’ annullata.” Mi ringraziò e mi fece i complimenti. È stato un momento importantissimo per me, perché era l’unico brano che sentivo di poter rifare in quel modo. Il videoclip, invece, fu girato in casa subito dopo il Covid. Fu realizzato da Ricky, il regista che ha firmato anche molti video di Ligabue. Quella sera era invitato a cena e fece una ripresa col telefono, mentre cantavo questo brano per la prima volta. Conservo un ricordo bellissimo di quel momento, perché, se vai a vedere il video, è tutto molto genuino, realizzato in un’unica ripresa. Racconta anche lo stato d’animo di quel periodo, in cui eravamo ancora tutti isolati.
Da chitarrista ho sempre notato che hai usato tante chitarre nella tua carriera, ad esempio sul tuo album “Nero” hai usato delle chitarre vintage italiane, ce n’è però una che senti la Tua chitarra? Magari quella a cui sei più legato a livello affettivo ad esempio?
Ho degli strumenti che rappresentano il mio passato. Sono veramente molto innamorato dei miei strumenti e ne possiedo alcuni che non darò mai via e che non uso spesso proprio per rispetto.
Una chitarra che ho suonato per un periodo, ad esempio, è una vecchissima chitarra appartenuta a Beppe Maniglia, un personaggio molto folcloristico di Bologna. Si esibiva in Piazza Maggiore, con una moto enorme amplificata, e faceva parti strumentali. Era molto famoso anche nella zona di Riccione e in tutta la riviera romagnola. Suonava brani degli Shadows oppure degli Airbirds con questa chitarra: una Epiphone del ’63, uno strumento meraviglioso che acquistai da Stanzani, un liutaio. È una chitarra per me importantissima, anche perché la comprai con i miei risparmi.
Poi ho una vecchia chitarra che era di Gaetano Pellino, il fratello di Neffa, un bluesman che ha suonato a Bologna per tantissimi anni. È una Deluxe nera a cui ho tolto i pickup per sostituirli con degli humbucker, in modo da avere una chitarra simile a quelle di Jeff Beck e Joe Perry dell’epoca. Sono strumenti per me molto importanti. Poi ho un’altra chitarra, una Strat Plus, che ha una storia meravigliosa. Questa chitarra l’avevo spaccata a Roma, all’Olimpico, come gesto simbolico per restituire alla musica tutto quello che mi aveva regalato. La diedi a un ragazzo, amico di mia sorella, che la mise un po’ a posto. Qualche anno fa, chiamai un taxi e trovai proprio lui come autista: mi disse “Io ho ancora la tua chitarra”. Gliel’ho richiesta, dandone in cambio un’altra. L’ho fatta sistemare e oggi ce l’ho ancora.
Hai militato con Litfiba e poi con Ligabue che sono due grandi nomi del rock italiano. Quali differenze hai trovate in queste due importanti esperienze musicali?
Litfiba, per me, è stata un’esperienza importantissima, perché arrivavo da band locali dove c’era una necessità, una voglia, un’aspettativa di fare un salto di qualità. Quando entrai nei Litfiba, imparai la disciplina musicale: la disciplina di una band, la disciplina nello stare al proprio posto e nel fare ciò che ti viene chiesto in modo sempre più preciso. Diciamo che tutta la parte artistica veniva un po’ messa da parte, ma emergeva un aspetto lavorativo molto importante, che mi è servito tantissimo. Io ero una seconda chitarra e non ho mai dato un mio contributo creativo; cercavo di eseguire e l’ho fatto con grande impegno, ciò che mi veniva richiesto, soprattutto da Aiazzi e da Ghigo. Sono entrato alla fine del periodo di “Pirata” e ho partecipato a “El Diablo”, “Sogno Ribelle” e “Terremoto”. Poi, nello stesso anno in cui uscii dai Litfiba, il manager Pirelli mi prese sotto contratto con la mia band. Ho sempre portato avanti altri progetti, oltre alle collaborazioni con artisti importanti, perché ho sempre sentito la necessità di fare anche qualcosa di trasversale, per mantenere quella freschezza lavorativa e trovare l’energia per proporre, in futuro, nuove idee. Anche oggi, a distanza di tanti anni, ho un progetto nuovissimo che si chiama La Ladra, in cui ho curato tutto, dalla prima nota all’ultima. È un progetto che si rifà alla musica degli anni ’80, a cavallo tra Punk, Post-Punk e New Wave. Diciamo che il mio mondo musicale vive di rapporti con artisti importantissimi, ma ho sempre sentito la necessità, non per guadagno, di mantenere viva questa passione, anche a distanza di tanti anni.
Quindi con Ligabue hai avuto maggiore creatività.
Quando entrai con Luciano, entrò tutta una band. Io venni chiamato da Rigo Righetti, con cui avevo già collaborato e inoltre io, con i Radio City la mia band precedente, e lui, con i Rocking Chairs, eravamo nella stessa casa discografica. Non ci conoscevamo molto, però avevamo collaborato per un artista insieme a Pellati, e Rigo mi propose di fare un provino, senza però dirmi chi fosse l’artista. Mi ritrovai davanti a Luciano Ligabue, in una piccola sala prove; la sua richiesta fu di avere musicisti propositivi, che avessero un proprio carattere e che potessero contribuire concretamente al suo progetto. In quella situazione mi sentii subito molto più coinvolto. Ancora oggi, nel disco appena uscito, “Buon Compleanno Elvis Naked”, questo spirito si ritrova: è un album che abbiamo realizzato praticamente in due, io e Mel, con l’aiuto fondamentale di Luisi, il tastierista. Le parti di chitarra le abbiamo suonate noi, e Luciano ci ha lasciato totale libertà, permettendoci di reinterpretare “Buon Compleanno Elvis” in una chiave nuova, partendo proprio da due chitarre acustiche.
Ritorniamo alla tua carriera solista. Come nasce la band dei The Crumars?
Nasce con “Nero”, l’album più a fuoco del mio progetto, perché ci sono arrivato dopo un lungo periodo di lavoro e con il supporto di un produttore che stimo da tantissimo tempo: Michael Urbano. Ho chiesto a lui di produrlo come se fosse un disco destinato non all’Italia, ma all’estero. Lui è di San Francisco, e quindi mi sono lasciato completamente andare. Nei dischi precedenti, secondo me, ci sono cose molto belle, ma le ho sempre realizzate senza avere ancora chiaro il progetto. Parlo di sonorità, non di canzoni. Le sonorità, per me, sono fondamentali e “Nero”, a mio avviso, è perfetto. Michael mi chiese di suonare strumenti italiani, proprio perché aveva visto che a casa mia ne possedevo diversi. La Crumar, una tastiera degli anni ’70 che avevo a casa, è diventata il nome della band. Ho utilizzato Farfisa, Steelphon e chitarre come le Meazzi, le Galanti e le Wandré: tutti strumenti che hanno una loro particolarità.
Si percepisce infatti un suono diverso, direi quasi “croccante” per via dell’uso del Fuzz che se non ricordo male fu prodotto anche dall’italiana Eko.
Esatto! Ne ho utilizzati infatti della Eko, ma anche della Vox che un periodo era a Pescara o il Farfisa che è di Osimo. è stato bellissimo anche perché sono strumenti in cui certe note suonano male e quindi acquistano una particolarità, sono organiche, mai identiche. Devi prendere quello che ti arriva.
Ti faccio le ultime due domande così ti lascio al sound check. Come nasce una tua canzone? Parti da una melodia oppure da un’idea e poi ci sviluppi la musica?
Allora, ho lavorato in tanti modi, seguendo vari step. Di solito uno dice: “Ho la canzone, ci faccio il testo”, cosa che ho fatto anch’io, ma ho anche scritto prima il testo e poi l’ho musicato. In altri casi, invece, ho creato musica e parole insieme. La cosa che mi viene meglio è scrivere una linea melodica e poi aggiustare le parole: è un lavoro massacrante, però la parte melodica risulta molto ricca e si avvicina soprattutto al mondo che amo, quello del blues. Uso parole in italiano, le parole tronche non hanno una grande melodia, ma quando riesci a trovare le parole giuste per un brano con le tronche, diventa proprio rock and roll e blues; quindi, si inserisce perfettamente nel mio mondo. “Nero” è stato costruito così, con melodie in finto inglese su alcuni testi. A parte “Un giorno come un altro”, dove ho scritto prima il testo, tutte le altre canzoni sono nate dalla melodia. Anche grazie a aiuti molto importanti, ho cercato di dare un senso compiuto a quello che dicevo. È stato un lavoro molto impegnativo, ma, a distanza di anni, sono convinto che “Nero” sia davvero un bel disco.
Siamo giunti all’ultima domanda. Riallacciandoci alla prima domanda, e quindi rendendo quest’intervista circolare, ti chiedo: Se oggi un giovane Federico Poggipollini dovesse scegliere un album moderno che lo faccia diventare un musicista quale sarebbe?
Bella domanda! (Ride) Beh, direi perché è un amico, e se fossi molto più giovane direi Lucio Corsi. Sto un po’ cavalcando anche l’onda, però io l’ho conosciuto, sono andato a vederlo per conto mio qualche anno fa e mi ha sempre incuriosito. Poi abbiamo fatto una cosa insieme per Ivan Graziani, con Filippo e Tommy Graziani, per Maledette Malelingue, che è un festival: abbiamo suonato insieme e rifatto alcuni brani di Ivan Graziani, dei T. Rex e di Bowie. Diciamo che abbiamo suonato brani di Ivan e brani che Ivan stimava, ed è stata una bellissima esperienza. Sono molto felice del suo successo ed è un artista vero. Parlando di italiani, direi lui; invece, per quanto riguarda gli internazionali, forse Jack White, che mi piace molto.
Che è un po’ ricorda lo stile del tuo album “Nero” come sonorità.
Allora, Jack White e anche i Black Keys, sì sì, di brutto! Però quest’onda inglese si ritrova anche in La Ladra, perché è un progetto che ho realizzato seguendo veramente un’onda che oggi non c’è più: l’uso di un modo di cantare molto declamato su una base anni ’80. C’è una scena inglese contemporanea, per esempio Billy Nomates o i Dry Cleaning, con band che usano questo meccanismo, un po’ come facevano i CCCP negli anni ’80. Io e Susanna abbiamo lavorato su questa linea: lei canta e scrive i testi, mentre tutto il resto è un lavoro che porto avanti io. È un progetto che vi invito davvero ad ascoltare.
Ringrazio Federico per il tempo che mi ha dato. Lui, sempre gentile, mi fa con un sorriso: “Ci vediamo dopo sotto il palco, per il concerto!”. Prima che sparisca, tiro fuori dall’agenda, quella dove avevo buttato giù le domande apparentemente senza un filo logico, un vecchio biglietto del concerto di Ligabue a Roma nel ‘99, che avevo trovato tipo per magia qualche giorno prima. Glielo pianto davanti. Lui lo guarda e scoppia a ridere: “Pazzesco!”. Già, pazzesco. E diamine, lo è davvero. Soprattutto vedere negli occhi di un musicista con decenni di carriera quella stessa fiamma di passione e amore per la musica che di solito hanno solo quelli agli inizi, è roba che ti spiazza e ti fa amare la musica ancora di più.
Articolo di Daniele Bianchini
