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Ghigo Renzulli intervista 2025

Nuovo disco per una leggenda del Rock italiano

1 febbraio, Bologna, ore 19. Tra mezz’ora apriranno le porte per la prima data del tour di “Dizzy”, il nuovo album No.Vox di Ghigo Renzulli. Durante il soundcheck, qui all’Alchemica Music Club di Bologna, vedo Ghigo che, finito il tutto, ha un momento libero; è tutto più rilassato. Non era in programma un’intervista in realtà da fare or ora ma questo breve momento è un’occasione unica. Lo guardo e penso Cosa ho da perdere? Be’, solo la faccia direi perché sto per fare delle domande a una leggenda del Rock italiano. Però la vita è strana, quando riaccade? In realtà prima, mentre lo guardavo provare con la band dal tavolino del bar del locale, non ancora aperto, pensavo che se dovessi fargli un’intervista non gli chiederei nulla di un leggendario ma ingombrante passato, questo perché credo che ogni opera ha una vita a sé, ha delle proprie gambe per camminare e va vissuta senza guardare altrove se non il presente. Lo trovo una forma importante di rispetto per un’opera, in questo caso “Dizzy”. L’opera è il presente. Il presente è imbottigliato nell’opera. Vorrei chiedergli di questo disco fresco fresco, tutto qui.  Eccolo lì, sta appoggiando una delle due chitarre. Glielo chiedo. Proviamo.

Ciao Ghigo, hai qualche minuto?
Aspetta, vedo come siamo organizzati con i tempi. Ora chiedo e arrivo.

E lui arriva e si siede di fianco a me. Per me è come se mi passasse la vita davanti in pochi secondi: tutte le volte che ho ascoltato da ragazzo con degli amici fan i Litfiba nell’autoradio. O fino a due anni fa quando con Giovanna andammo all’ultimo loro concerto a Firenze (il nostro live report) (Rock Nation era presente anche all’ultimo concerto della carriera, a Milano). Ma niente Litfiba. Si parla di “Dizzy”. Giovanna gli chiede Può essere un problema se faccio foto durante l’intervista?
Io non ho nessun tipo di problema. Mai.

[Giovanna dopo mi dirà che le è rimasta impressa questa invidiabile calma zen di Ghigo e del suo essere così cortese, signorile. Lo è. Passiamo all’intervista, rivelo subito la mia emozione per giustificare future gaffe o balbettii eventuali. Questi pensieri sono poco professionali, lo so, ma sono reali, inutile atteggiarsi. Ghigo è passato da un’autoradio a essere fisicamente di fianco a me stasera].

Ciao Ghigo! Questa è la prima data di presentazione di “Dizzy”, il tuo ultimo lavoro. Quando è nato?
Allora, questo progetto è nato nel 2021. Ho fatto il primo disco di inediti, “Cinematic” (la nostra recensione) durante la pandemia. Quando c’è stata la pandemia ero in uno studio in casa. Mi sono tappato in casa e ne ho approfittato per il primo lavoro. Questo disco invece l’ho fatto in studio di registrazione ed è “più disco” con tutto quello che vuoi ovvero con mezzi superiori in un altro periodo in cui invece si poteva. Ci ho lavorato molto, un anno e mezzo di lavoro. Il progetto nasce in quel periodo lì, poi per questa band sarebbe la seconda apparizione pubblica. La prima si fece nel 2021 al teatro antico romano di Fiesole (il nostro live report), ma lo scopo non era di fare uno spettacolo o una presentazione, lo scopo era soltanto di registrare un disco live, “Alcazaba” (la nostra recensione). Visto che c’era ancora un periodo di pandemia e che quando abbiamo fatto lo spettacolo c’era ancora il distanziamento sociale, bisognava stare a distanza con le mascherine e il pubblico doveva stare a 30 metri di distanza, allora quale migliore occasione di avere un’acustica del teatro antico romano e registrare un disco live – come abbiamo fatto. L’operazione è un po’ alla “Live in Pompei” dei Pink Floyd. La concezione è sempre stata la stessa, uno spettacolo suonato insieme ma non proprio pubblicamente. Questo in realtà è il primo concerto di questa band. Stasera invece c’è un vero soundcheck, c’è un vero club, c’è un pubblico che paga un biglietto, anche se basso perché è una presentazione; suoneremo un’oretta massimo.

Sei emozionato come fosse una sorta di prima volta? Tornare nel club, un luogo più intimo e diretto con il pubblico rispetto a una dilatazione da stadio, come la stai vivendo o la vuoi vivere?
Ah, c’è sempre la prima volta, in questo lavoro. Penso che in questo lavoro bisogna sempre essere con i piedi per terra. Penso al primo concerto dei Litfiba: c’erano 100 persone, nel secondo ce n’erano 80, nel terzo 50, nel quarto ce n’erano 40, addirittura ci tirarono pure le uova. Così funziona il mondo. Poi è chiaro, pian piano, in dieci anni di gavette, i Litfiba sono arrivati a quello che sono. Ci hanno messo dieci anni, pur essendo una band che spaccava il culo, con un cantante, più che altro con uno showman, del calibro di Piero Pelù. Ovviamente se si era americani si faceva prima, però come sempre siamo in Italia.

A che punto senti di essere della tua carriera? Questa cosa la vedi come una rinascita o un continuo?
Questa cosa è un progetto culturale in crescita. Il nome si chiama “Ghigo Renzulli e No.Vox”, “No.Vox” è un progetto mio, non è detto che sia l’unico, possono esserci anche altri, anche in altri modi, però questo è un progetto strumentale in crescita, perché la musica strumentale non ha confini, non ha età. Se fai musica strumentale nessuno ti chiede la carta d’identità. Io, come dicevo, a 18 anni ho visto al Comunale Andrés Segovia che aveva già 94 anni, quindi era una roba … Non ti puoi immaginare, il più bravo chitarrista mondiale di chitarra classica – che è morto l’anno dopo. C’era una voglia, un’energia, una voglia di suonare che era tremendo. La musica strumentale la fai anche a cent’anni, se vivi.

Da fuori si sentiva la tua chitarra durante il soundcheck, ed era la tua voce: riconoscibile.
Tutti i cantanti hanno il problema che con l’età la voce… Purtroppo sono corde vocali, su questo aveva ragione Piero; io le cambio le corde alla chitarra, lui non può. Non hanno ancora trovato un modo di farlo.

Eh sì, i cantanti sono strumento loro stessi. Ma non puoi ordinare una muta di corde per loro.
Vivono una situazione bella, infatti nella prossima vita faccio il cantante, così non mi devo portare strumenti sulle spalle; arrivo solo col microfonino, anzi manco quello perché lo trovo sul posto, però la durata complessiva di una voce è minore.

Accennerai qualcosa durante il concerto di un repertorio esterno? Faccio un esempio, quando sono arrivato mi è sembrato di sentire qualche nota addirittura di Nino Rota
Sì, in questo disco c’è un pezzo che si chiama “Engelcord Suite”. Il nome è particolare; è una suite perché è composta da tre momenti diversi. C’è un riadattamento di un brano dei Rammstein, “Engel”, e c’è un riadattamento del tema di “Amarcord” di Nino Rota, la colonna sonora del film di Federico Fellini, e poi c’è un’altra parte di mia composizione che ho utilizzato come cuscinetto per far tornare un po’ i conti perché ti garantisco: non è stato facile mettere insieme i Rammstein e Nino Rota.  In realtà ci ho messo due mesi per farlo, per capire come farlo. Poi alla fine picchia e mena mi è riuscito addirittura questo brano; l’ho registrato due volte perché la prima versione non mi soddisfaceva. Alla fine è venuto, si chiama “Engelcord Suite”: si comincia con i Rammstein e si finisce con Fellini. Comunque i Rammstein volendo sotto certi punti di vita sono felliniani perché da “La dolce vita”: anche se fanno Industrial Metal, sono tosti tosti, ma i loro divertimenti se li prendono. Soprattutto Till, eh eh …

Durante il soundcheck abbiamo sentito la tua chitarra bella ruggente.
C’è una cosa particolare di questa esibizione: qui si suona, non ci sono basi registrate. Si suona veramente. È sempre una cosa che sta diventando un po’ più rara, a livelli alti è sempre più rara. In Italia non lo fa un po’nessuno, tutte basi. Bisogna divertirsi in qualche modo. Sennò non mi diverto!

Articolo di Mirko Di Francescantonio, foto di Giovanna Dell’Acqua

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