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Little Pieces of Marmelade intervista

Il duo torna con un album viscerale, istintivo, frutto della volontà di approcciarsi alla musica in maniera sana e lontanissima da conformismi e logiche di mercato

Con “Mexican Sugar Dance”, i Little Pieces of Marmelade tornano con un album viscerale, istintivo, frutto della volontà di approcciarsi alla musica in maniera sana e lontana il più possibile da conformismi e logiche di mercato (la nostra recensione). Parliamo di questo e molto altro in questa chiacchierata con il batterista e vocalist DD e il chitarrista Frankie.

Partiamo dalla genesi del nuovo disco. Da X Factor in poi non vi siete fermati un attimo, tra l’esperienza come musicisti per Manuel Agnelli, la produzione di “Ologenesi” e relativo tour: cosa avete portato di tutte queste esperienze fatte in “Mexican Sugar Dance”?
Frankie: A livello pratico ha trasformato in un lavoro ciò che prima era solo un gioco, e abbiamo quindi iniziato a ragionare da professionisti, rendendoci conto che bisogna produrre i dischi se si vuole andare in tour, i tour servono a fare i soldi, i soldi per fare altri dischi, insomma, abbiamo iniziato a toccare con mano questo circolo vizioso che sta alla base della professione di musicista.

DD: per ciò che riguarda la parte più artistica, sicuramente può modificarsi nel tempo, indipendentemente dalle esperienza fatte. Andare in tour, fare i concerti, ti mette solo più “fame”, nel senso che se un musicista non fa queste esperienze e non continua a farle, rischia di perdere un po’ di spontaneità, di direzione artistica. Noi siamo sempre e comunque in continuo mutamento, lo siamo sempre stati, anche se sicuramente il contatto con Manuel Agnelli, per esempio, ha portato comunque i suoi frutti: abbiamo avuto l’occasione di suonare su alcuni dei palchi più belli d’Italia, dandoci strumenti aggiuntivi per affrontare questo lavoro, o meglio ancora, per continuare con questa nostra passione.

Frankie: In realtà in “Mexican Sugar Dance” c’è proprio una fuga dal mondo delle grandi produzioni, perché è il primo disco dopo quattro, forse cinque anni in cui siamo nel nostro studio da soli, senza un produttore, senza un discografico che ci dà delle scadenze, senza nessuno che ci riempie la testa di dubbi con una serie infinita di se vuoi ottenere risultati devi fare questo e quello. Insomma, dopo tanto tempo siamo noi stessi.

Da cosa nasce il bisogno di produrre, “Mexican Sugar Dance” in inglese e a poca distanza un altro album, stavolta in italiano, “404DEI (Errore degli Dei)”, in uscita il 10 dicembre?
DD: Il disco in inglese ci ha permesso di ritornare un po’ a quello che eravamo da adolescenti, recuperando la spontaneità degli esordi ma con la sicurezza della maturità: “Mexican Sugar Dance” è stato scritto in soli tre mesi dopo il lavoro su “404DEI (Errore degli Dei)”, per il quale abbiamo impiegato invece un anno di lavoro. Avevamo bisogno di tornare a fare un tipo di musica che ci facesse sentire liberi e a nostro agio, sia a livello di composizione che di palco, usando solo l’istinto e senza imporci di ricamarci troppo sopra, mentre il disco in italiano è molto più rifinito e direi introspettivo, poetico, se vogliamo usare questo termine, quindi pur uscendo a poca distanza, i due lavori non sono intrecciati tra loro in maniera così stretta. “Mexican Sugar Dance” credo ci rappresenti perfettamente sotto ogni punto di vista, in questo momento.

In “Mexican Sugar Dance” toccate uno o più generi musicali differenti: l’Indie Rock di “Family Therapy”, il Funk psichedelico di “Love” , fino ad arrivare alle pennellate Hardcore di “Glass Villain”. Il fatto di essere cresciuti con piattaforme in grado di far circolare la musica liberamente influenza secondo voi il linguaggio musicale degli artisti della vostra generazione? Porta dei vantaggi oppure “meno era meglio”?
Frankie: è un vantaggio per noi artisti perché abbiamo una tavolozza di colori infinita, quindi la tela che si può dipingere avrà una varietà di idee, di suoni, di modi di approcciarti alla composizione altrettanto infinita. Il problema sta più nei modi in cui poi la musica viene distribuita: mi metto nei panni di un quattordicenne, che può ascoltare tutto ma senza i filtri giusti per farlo. Questo però non dipende da noi che facciamo musica, ma da chi la veicola, anche se vedo in chi è più giovane di noi una certa pigrizia, per cui nonostante ci siano più possibilità queste vengono sfruttate sempre meno, e in tanti casi ci si accontenta di seguire ciò che è di tendenza. Noi siamo stati forgiati invece dalla generazione che ci ha preceduti, vedevamo persone fare concerti, organizzare cose, distribuire musica in modi diversi da quelli attuali, quindi per noi “si fa così”, anche se purtroppo non vediamo un certo ricambio, né nei nostri coetanei né in chi è più giovane. Manca un filtro, un’istruzione, siamo sempre a parlare di Sanremo, di fenomeni pop e non musicali.

DD: Tornando alla tua domanda, avere una gran cultura musicale, figlia anche della saturazione dei contenuti, può essere un’arma a doppio taglio e creare confusione, portandoti a non riconoscerti più in ciò che sei se mancano delle figure di riferimento a fare da guida. Per noi è un altro discorso perché già da piccoli ascoltavamo molti generi musicali differenti, è qualcosa che ci appartiene da sempre e fa parte delle nostre influenze, cosa che quindi automaticamente affiora nei nostri lavori. Ti faccio l’esempio dei Beastie Boys: hanno affrontato un mucchio di generi diversi e grazie a questo hanno avuto successo, anzi possiamo dire serenamente che sono stati degli innovatori. Per concludere, ripeto, è un tipo di problematica legata non tanto a noi artisti, quanto a chi veicola poi la musica.

Se stilisticamente c’è una grande varietà di generi nel disco, credo che il filo conduttore sia invece rappresentato dal sound generale che attraversa le tracce, un’atmosfera lo fi quasi paludosa: come avete ottenuto a livello di produzione questo feel particolare? È stato progettato così dall’inizio o è venuto da sé mentre lavoravate in studio?
Frankie: Guarda, noi amiamo stare in studio, amiamo sperimentare, semplicemente abbiamo messo i microfoni e abbiamo iniziato a registrare senza pensarci troppo su, senza fare troppa ricerca. In “Mexican Sugar Dance” c’è solo la volontà di catturare un momento, senza formule magiche, architetture sonore, con relativamente pochi mezzi a disposizione e senza una grande produzione alle spalle: produrlo è stato per noi come farci un autoscatto con la nostra fotocamera interiore. L’ho registrato e mixato io utilizzando tecnologie forse un po’ obsolete ma con lo spirito pionieristico proprio degli studi degli anni Sessanta, in cui con mezzi relativamente poveri, se rapportati alle possibilità odierne, facevano uscire suoni spaziali.

Anche per ciò che riguarda l’esecuzione dei brani abbiamo utilizzato lo stesso approccio, e a questo proposito ti faccio l’esempio di “Love”: abbiamo cercato di registrarla nel modo più corretto e pulito possibile per poi renderci conto che la prima take per noi era perfetta! Ogni musicista che abbiamo conosciuto fa prima un provino, poi va in uno studio molto professionale dove registra mille take, mette a tempo, pulisce, rifinisce. In questo caso non c’è stato niente di tutto ciò perché era la prima idea quella che contava, ci piaceva come suonava, ciò che ci dava a livello emozionale e abbiamo quindi preferito mantenere quel tipo di spontaneità.  Mi tolgo lo sfizio di dire che questa cosa non la sa fare più nessuno, io lavoro in studio spesso e non vedo più musicisti dire “buona la prima”, quindi un po’ magari ce la possiamo anche tirare nel dire che ci è piaciuto giocare a fare i “pittori impressionisti”, riuscendo veramente a cogliere il momento con questo lavoro.

Parlando di live, come andate a rielaborare i brani per essere portati sul palco? Immagino ci sia dietro un notevole lavoro di semplificazione degli arrangiamenti…
DD: Dipende ovviamente dal brano, anche se in questo tour l’idea è quella di portare ciò che si sente su disco. In generale l’idea di andare più a briglia sciolta, più rock and roll sul palco non ci è mai dispiaciuta, e anche se possono magari mancare dei suoni, dei dettagli, questo è compensato dal fatto che live sicuramente c’è più furia, sfumature che da disco non risaltano. Diciamo anche che comunque, a parte magari le ballad o brani più ricamati, noi abbiamo sempre cercato di fare tutto in due, quindi stando attenti a non strafare troppo con la produzione, perché poi alla fine nei live cosa porti? È sempre per mantenere questo approccio alla vecchia maniera, come dicevamo prima, con meno sequenze possibili, che andrebbero a influenzare negativamente il divertimento nel suonare e l’immediatezza del momento.

In un’intervista del 2012 Billy Corgan diceva che secondo lui non sarebbero più potuti nascere nuovi Kurt Cobain perché sarebbero stati immediatamente “conformati” dal mercato discografico che non accetta più la ribellione se non come elemento estetico: pensate che per un giovane artista nel 2025 ci sia ancora la possibilità di innovare o Corgan aveva effettivamente ragione?
DD: Beh, magari anche negli anni Novanta avrebbero potuto dire lo stesso, che non ci sarebbe più stato un nuovo Jimi Hendrix, per esempio. Sicuramente oggi sarebbe più difficile emergere per un nuovo Kurt Cobain, ma non è impossibile. Io non voglio crederci.

Frankie: Sicuramente se ci fosse non potrebbe avere gli stessi riferimenti che avrebbe avuto trent’anni fa: ti devi adattare, noi stessi ci siamo sbattendo il muso. L’arte progredirà ancora, la musica progredirà ancora, e speriamo che questo progresso torni in mano agli artisti e non a chi vuole solo farci i soldi! Anche Kurt era, in fin dei conti, schiavo di un sistema commerciale che alla fine l’ha schiacciato, lo stesso vale per Hendrix e tanti altri, ma posso dirti una cosa: noi artisti faremo di tutto per riprenderci ciò che è nostro e non lasciarlo in mano, con tutto il rispetto, ai giornalisti, ai distributori, alle etichette, ai manager, perché grazie a loro oggi l’artista non è più tale, ma è diventato colui che si rende conforme a queste regole.

Ti immagini Battiato a caccia di like su Instagram?  Io a un giovane musicista direi questo: sei sicuro di voler venderti il culo con la speranza di essere prima o poi libero di fare ciò che vuoi? Perché noi abbiamo ragionato in quel modo, per renderci poi conto che non era veramente così e ora stiamo soffrendo per tornare a possedere di nuovo la nostra libertà. Vorremmo essere di esempio per i giovanissimi, perché siamo veramente stanchi di vedere questi ragazzetti di quattordici anni con gli occhi pieni di sogni, che si infrangono non appena si rendono conto che se non hanno almeno diecimila follower su Instagram non vanno da nessuna parte.  E anche chi avrebbe il potere mediatico di dare spazio ai nuovi artisti, magari autoprodotti, evita di farlo, è un mondo che purtroppo è cambiato e dobbiamo cercare di vivere nel presente. Questo per dire che chi ha la possibilità di smuovere veramente la cultura alla fine non lo fa.

Articolo di Alberto Pani

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