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Lory Muratti e Andy Bluvertigo intervista

Insieme protagonisti di un viaggio psychofantasy, al contempo dark e pop in cui musica, letteratura e pittura si fondono in modo del tutto inconsueto e coinvolgente

“L’ora delle distanze“ è l’ultimo, ambizioso progetto nato dalle menti vulcaniche di Lory Muratti ed Andy Bluvertigo: in bilico tra musica, letteratura e arte visiva, i due lo stanno portando in tour, la prossima data sabato 18 ottobre al Black Inside di Lonate Ceppino, in provincia di Varese. Il romanzo e il 45 giri sono disponibili per l’acquisto (anche in bundle) su https://bit.ly/loradelledistanze_libro. Con la garbata ironia che li contraddistingue, Lory e Andy ci raccontano, e soprattutto, si raccontano in questa intervista.

Come nasce la vostra collaborazione? So che vi conoscete da parecchio tempo…
Lory: Ci conosciamo da tantissimi anni: ci siamo incontrati tra la fine degli anni ‘90 e i primi anni 2000, in un periodo in cui Andy era nel pieno del lavoro con i Bluvertigo, ma contemporaneamente aveva avviato un progetto personale che somigliava a qualcosa che anch’io stavo facendo, cioè cercare di unire risorse artistiche e immaginari di figure a me vicine per creare una sorta di progetto di collettività. Avevo all’epoca infatti avviato un laboratorio, H-Park, dal quale nascevano eventi in cui ho iniziato a coinvolgere Andy, e lui nello stesso periodo aveva creato questa specie di casa-laboratorio con uno spirito molto simile.

Andy: Esatto! Un’abitazione che, nel mio caso, diventava un po’ un porto di mare, un luogo di incontro per vari artisti, in modo da poter unire le forze, dalla videoarte a chi faceva musica, da chi faceva foto a chi faceva trucco e parrucco per arrivare allo styling, era un concetto in cui ci siamo trovati a parlare la stessa lingua rispetto alla necessità di unificare le risorse di ognuno.

Lory: L’unione delle varie forme d’arte è una cosa che ci affascina da sempre, anche in tempi non sospetti, perché successivamente si è anche molto parlato e abusato di concetti come multimedialità e multidisciplinarietà. Noi non ci ponevamo il problema in questi termini, o meglio, non ci ponevamo proprio il problema, ci piaceva l’idea della contaminazione per la contaminazione, ci si rendeva conto che lavorare con persone che facevano cose con lo stesso approccio, ma sviluppando forme d’arte differenti, poteva essere una grande modalità per trovare ispirazione e fare cose.

Qual è la genesi del progetto “L’ora delle distanze”?
Andy: In realtà è curioso valutare come la nostra collaborazione si sia mossa di decennio in decennio, con il numero nove in qualche modo protagonista sin dal nostro primo incontro, nel 1999; nel 2009, poi, galeotta fu la neve, perché Lory era ospite di una serata nel mio capannone e, a causa di una nevicata abbondantissima, è rimasto bloccato a casa mia: ho iniziato quindi a parlargli di un progetto a cui pensavo già da dieci anni, “Fluon”, che doveva inizialmente diventare un cortometraggio, ma che poi si è  trasformato nell’incipit del libro “L’ora delle distanze”. Lory, entusiasta di questa intuizione, ha pensato bene di sviluppare attorno ad essa una narrazione, un racconto, potremmo dire che io ho dato lo spunto iniziale e lui ha poi sviluppato tutto il resto. Poi nel 2019 cosa è successo?

Lory: Ci siamo ritrovati in mezzo al lago di Monate, ripromettendoci di fare qualcosa di tutto quello che avevamo in sospeso.

Andy: Sì, creare una prima stesura del progetto magari, ma io ero un po’ distratto, come mio solito, preso da altre mille cose. Poi invece nel 2024 ci siamo rivisti, e stavolta i pezzi del puzzle finalmente hanno cominciato a combaciare: ci siamo resi conto di essere pronti per mettere in atto qualcosa che di norma avrebbe richiesto anni di lavoro, e con relativamente poco sforzo siamo riusciti a trovare la giusta commistione tra dipinti, narrazione, impaginazione, i brani, perché “L’ora delle distanze” è anche un 45 giri con doppio lato A.  Tutto è quindi confluito molto naturalmente, tenendo sempre presente comunque che l’80% del lavoro tecnico è merito di Lory, perché lui dei due è quello meticoloso, che ci mette tantissimo tempo per fare le cose, curando ogni minimo dettaglio. Io sono un po’ più mordi e fuggi in questo senso, e tendo a fare le cose velocemente, di getto. Ci siamo ritrovati così a mettere in pratica tutto quello che era rimasto in sospeso in quel cassetto e che avremmo da sempre voluto sviluppare.

Lory: Sì, sono quelle cose che pur vedendoti negli anni, frequentandoti, ritrovandoti in varie situazioni, rimangono un po’ sospese, come se il progetto stesso fosse in attesa del momento giusto. Prima Andy ha esposto un concetto molto bello, in cui mi ritrovo appieno, mi riferisco al fatto di parlare la stessa lingua: credo sia il risultato non solo di avere un background di ascolti, cinematografico, letterario, più in generale un immaginario comune, ma anche e soprattutto di aver passato dei momenti simili nella vita, vita che prima o poi mette sempre entrambi sullo stesso binario.

Andy: Aggiungo a proposito del passare del tempo e parlare la stessa lingua, che mi è capitato di incontrare amici che non vedevo da anni, che prima avevano il dread, l’anfibio, avevano un certo stile di vita e dieci anni dopo invece sono diventati dei businessman con figli. Non giudico, cambia l’immaginario, cambia la prospettiva, cambia il linguaggio e la possibilità di immergersi in realtà creative, mentre noi ci siamo ritrovati senz’altro evoluti, con molta più esperienza sotto vari campi, però nella stessa situazione, condivisibile. Un altro aspetto, legato alla nostra attività di artigiani della creatività, è quello di spogliarsi di quello che è l’ego, cioè non proteggere la propria creazione. Per me è una cosa interessantissima quella che è capitata con Lory, perché mettendogli a disposizione il mio percorso pittorico, ha potuto liberamente costruire una vicenda, traendo ispirazione dai miei quadri, che non avrei mai potuto immaginare.

Nello stesso tempo lui ha accettato di compromettere quello che doveva scrivere per metterlo al servizio della narrazione di questo viaggio all’interno delle mie opere, quindi è stato uno scambio di risorse. Mi è capitato di rivedere miei vecchi lavori che non avrei nemmeno pubblicato e che invece nella narrazione hanno trovato un loro scopo: è come se Lory avesse creato un fil rouge attraverso il mio percorso pittorico negli anni, unendo opere vecchissime e opere recentissime e al contempo rendendole funzionali al racconto. Paradossalmente, per me che non ho mai fatto arte concettuale, se escludiamo lo scopo di creare una realtà parallela, che è poi il senso della narrazione de “L’ora delle distanze”, è stato affascinante vedere come tutto questo lavoro fatto insieme a Lory abbia valorizzato il mio lavoro di artista visivo negli anni, quasi come se fosse un’antologica.

Lory: È un aspetto questo che apprezzo sempre tu metta in luce, Andy, perché in realtà non immaginavo di riuscire a fare un percorso del genere: tante volte, mentre scrivevo, mi trovavo poi a chiedermi chissà se Andy si ritroverà fra queste pagine, perché fondamentalmente stavo entrando nel mondo di un altro, e anche se ho cercato di farlo in punta di piedi la realtà dei fatti è che dovevo scrivere, ed è come se la scrittura si muovesse da sé, è stata lei a guidarmi; il protagonista del libro, però, è di fatto Andy, o comunque il suo alter ego, che si muove in questo mondo parallelo che di fatto esiste dentro di lui, quindi è tutta una metafora di un viaggio interiore ed è una cosa che, fatta scomodando l’immaginario di un altro, a volte ti lascia con qualche dubbio in sospeso, perché ti puoi confrontare con l’altra persona fino a un certo punto. La narrazione ha le sue esigenze, poi come dicevamo prende vita anche un po’ per i fatti suoi, quindi ti confronti sull’idea, sul simbolismo di certi personaggi, ma poi da scrittore li devi far muovere e a quel punto diventi autonomo.

“L’ora delle distanze” è un progetto crossmediale, in cui l’arte visiva si intreccia con una storia che viene poi sublimata nelle canzoni: come riuscirete a portare sul palco questa commistione di diversi linguaggi?
Lory: Il corpo centrale di tutta l’esperienza, e la chiamo esperienza perché non si tratta solo di un’esibizione dal vivo ma ci sono varie sorprese, è quello che noi chiamiamo “concerto recitato”: questa è una formula che ben rappresenta l’idea di voler portare in scena in un live le canzoni che abbiamo fatto insieme, alcuni passaggi all’interno dei nostri reciproci repertori, ma soprattutto far prendere forma al libro attraverso una dimensione attoriale, teatrale, dove c’è comunque una continuità musicale, un sound design che crea texture che uniscono una canzone con l’altra, dando modo ai presenti di immergersi nelle atmosfere del libro.

Quindi ti devi immaginare fondamentalmente qualcosa che somiglia al teatro canzone, se non fosse che il teatro canzone riporta subito alla mente Gaber, che però aveva chiaramente un tono più scanzonato di quello che abbiamo noi nel mettere sul palco questo progetto, per quanto i personaggi che abitano questo “luogo non luogo” dove si svolge la narrazione – che noi abbiamo battezzato appunto “Le distanze”- sono piuttosto imprevedibili, così come lo è lo spettacolo, caratterizzato da atmosfere piuttosto differenti fra loro che però convivono in questo viaggio. Questo, come dicevamo, è il cuore dell’evento, ma il tutto si apre in realtà con una chiacchierata, poi una cena e il nostro dj set a quattro mani a chiudere, anch’esso inerente al libro, quindi c’è il concetto di serata che fa parte del racconto ma che viene traslata nella realtà.

Andy: L’ideale sarebbe leggere il libro prima dello spettacolo, in modo da immergersi completamente nella narrazione e creando davvero un’esperienza a tutto tondo, questa è una cosa veramente unica e che mi piace tantissimo.

Lory: Certo, ma anche chi non ha letto il libro può rimanerne incuriosito, avendo quello che potremmo definire “effetto teaser”, scusate l’inglesismo un po’ cinematografico. Hai un’anticipazione, un trailer, ecco, di quello che poi ti aspetta dentro il libro. Siamo curiosi noi stessi di sapere cosa accadrà, sono comunque serate che potenzialmente potrebbero avere delle dimensioni molto grandi, avere un sacco di persone a lavorarci. Noi lo facciamo in dimensioni anche piuttosto contenute, al momento soprattutto, dove ci occupiamo anche in un certo qual modo della regia della serata, perché la nostra idea, questa condivisa sin dagli albori della nostra conoscenza, è che quando si costruiscono questi eventi l’obiettivo è quello di far vivere a chi ti viene a trovare un percorso, una sorta di viaggio. È del tutto diverso dall’entrare nel locale, aspettare che la band inizi a suonare, bersi una birra, vedere il concerto e andarsene. È proprio un percorso come dicevamo, che inizia con questa cena ispirata ai dipinti di Andy, organizzata e curata dallo chef torinese Fabio Mendolicchio, durante la quale noi raccontiamo della gestazione e dei retroscena de “L’ora delle distanze”, accompagnati da uno psicoterapeuta che ci guiderà nella chiacchierata, mentre i presenti possono iniziare a gustare questi strani intrugli che sono anch’essi ispirati alle opere di Andy. Quindi già è un inizio di serata particolare che poi porta a tutto il resto.

Andy: questo è uno dei tipici progetti che, se non hai la possibilità di produrre con le tue risorse, ora che convinci un discografico, un’agenzia, una casa di produzione, ti passa la voglia. Quindi tanto vale farlo con i propri mezzi, in maniera indipendente.

Parliamo delle due canzoni: come sono nate? Qual è stato il processo di ispirazione, compositivo e produttivo dietro ad esse?
Andy: “La caduta” è nata tantissimi anni fa, era nei nostri vecchi provini, ne avevamo addirittura realizzato un video, sempre all’epoca di H-Park: quindi abbiamo riascoltato e poi attualizzato quello che era il provino.

Lory: “L’ora delle distanze” risponde un po’ di più al criterio con cui, in anni più recenti, ho portato avanti la mia formula produttiva, per definirla così: metto in dialogo di solito musica e narrativa, infatti pubblico da diversi anni libri e dischi, dove il disco fondamentalmente è un concept album ispirato alla storia raccontata nel libro. Questa formula è piaciuta anche a Andy, ci si riconosce anche lui, e quindi abbiamo pensato di aggiungere insieme la parte musicale a quello che era già una condivisione, tra le pagine del libro, tra immagini, immaginario e scrittura. Quindi il testo di “L’ora delle distanze” nasce lavorando sulla forma definitiva del libro che nel 2009 era solo un’idea, successivamente ci abbiamo lavorato insieme e oggi è la canzone che puoi sentire, oltre che l’incipit del libro.

“La caduta”, invece, come diceva Andy era stata scritta insieme all’epoca, e rappresenta ora come allora il finale del romanzo. Quindi era inevitabile pensare di riprendere anche quel brano e farne un 45 giri, invece di avventurarci nella realizzazione di un intero album, la cui produzione avrebbe richiesto ovviamente molto più tempo. Abbiamo pensato, essendo “L’ora delle distanze” un romanzo breve, che il formato 45 giri lo rappresentasse perfettamente, e oltre a questo si tratta anche di un oggetto, un feticcio, se vuoi, che a noi sarebbe piaciuto realizzare, anche perché ci avrebbe riportato a qualcosa che abbiamo amato durante la nostra infanzia, il mangiadischi con cui abbiamo iniziato ad ascoltare la musica, e che è uno degli oggetti di culto di Andy!

I brani rispondono un po’ allo stesso criterio, l’intuizione arriva dall’uno e dall’altro, non si sa, non si capisce e non si vuole neanche capire, perché comunque è una dimensione circolare che produce questo tipo di creatività. Anche per allestire lo spettacolo abbiamo lavorato così, spesso a distanza: Andy mi manda una base, io ci recito sopra, gliela rimando, lui mi dà il suo parere, quindi aggiusto delle cose, la proviamo quando ci vediamo in sala prove e, infine, diventa una parte del live. È un po’ un modo anche virtuoso di ottimizzare i tempi. Io sarei per perdere un sacco di tempo, perché come dicevamo prima  sono quello più meticoloso dei due.

Andy: Io invece vado di getto, e per spiegarti meglio il mio iter creativo ti faccio questo esempio: stavamo lavorando a uno dei paesaggi sonori che eseguiremo per accompagnare uno dei monologhi di Lory, lui mi ha dato una suggestione visiva e io, completamente random, ho buttato giù delle parti che, alla fine, sono risultate essere ciò che effettivamente serviva per valorizzare al meglio quel momento di parte recitata. Abbiamo continuato a lavorare seguendo il flusso in modo molto naturale, creativo, anche per quel che riguarda l’esibizione live, la creazione dello spettacolo. Io scherzosamente, da buon brianzolo, definisco Lory “precisetti” che potrebbe quasi suonare come un insulto, ma è un modo affettuoso per dire che ha un approccio molto più metodico rispetto al mio.

Insomma, attualmente il mio modo di lavorare è magari metterci tantissimo a trovare l’intenzione, per poi però tenere solo una traccia, che sia una voce, una strofa, un ritornello: una volta che penso di aver trovato ciò che stavo cercando, ne tengo solo una. Non tengo mai una variante di quello che ho registrato quando sono convinto abbia il mood che desidero. Mentre Lory, per principio, mi diceva Ok, me ne fai un’altra? Un po’ come fanno certi registi.

Lory poi è quello che va ad ascoltarsi mille volte tutte le registrazioni, perché è un perfezionista e va sempre nel dettaglio su una quantità di materiale infinito. Io invece, come dicevo, tendo a dare una gettata da buon pittore, e anche a livello musicale tendo a ottimizzare e fotografare QUEL momento. Pensa che ho scoperto a quasi 54 anni di essere ADHD, e proprio la dispersione di concentrazione portata dalla neurodivergenza fa sì che se non fotografo il momento, non arrivo alla fine. Mentre in questo modo, buttando giù le cose e facendole razionalizzare e ottimizzare da Lory, i progetti si chiudono. E lo spettacolo, secondo il mio parere, funziona molto bene anche per questo.

Lory: Si deve un po’ capire come funziona l’altro, e qui entra in gioco anche il rapporto umano, l’amicizia ventennale. Probabilmente se mi trovassi a lavorare, oggi, con una persona con la quale non ho costruito e sedimentato un rapporto, se non sapessi chi ho di fronte, magari ci sarebbero per entrambi motivi di lamentarsi del metodo di lavoro dell’altro. Noi invece sappiamo tirare fuori il meglio vicendevolmente. La forza sta nel trovare una quadra, nel venirsi incontro nei reciproci approcci e nel prendersi anche un po’ in giro.

Legati a “L’ora delle distanze”, come dicevamo prima, ci sono dei quadri di Andy, un libro di Lory e un 45 giri con doppio lato A, tutti oggetti solidi, reali, che possiamo toccare con mano e che non sono solo mero merchandising, ma anche ispirazione e prodotto intellettuale: quanto gli oggetti sono protagonisti all’interno del progetto? Come credete si possano relazionare con il messaggio artistico?

Lory: Siamo semplicemente dei feticisti! (ridono) ci piace l’idea di tenere le cose in mano, di avere degli oggetti tangibili che dimostrino che abbiamo fatto un percorso. Andy è più curioso riguardo alla digitalizzazione delle nostre esistenze, perché ha un background che lo porta un pochino di più in quella direzione. Io sono assolutamente vampiresco da questo punto di vista, nel senso più antico del termine: colui che ha vissuto centinaia di anni. Per me quindi l’oggetto è ancora il risultato di un percorso.

Andy: la metafora ideale di questo sta nei nostri acquisti di tutti i giorni, per esempio, per quel che riguarda l’illuminazione degli ambienti io compro strisce LED futuristiche, mentre Lory delle meravigliose lampade anni ‘60.

Lory: piace però a entrambi tenere in mano il risultato del nostro lavoro. Io credo che sia ancora una cosa importante, e lo è anche per le persone alla fine; quando ti incontri dal vivo per un concerto c’è ancora, per fortuna, quell’impulso che ti spinge all’acquisto del libro, all’ascolto del disco. Molti rimangono affascinati dall’idea che il nostro sia un 45 giri, color crema, trasparente, dove c’è cura anche nella produzione dell’oggetto. Questo anche grazie all’editore Mirage di Torino e all’etichetta indipendente Riff Records di Bolzano, che insieme ad House of Love, il laboratorio creativo al quale abbiamo dato vita qui sul lago di Monate, ci hanno permesso di mettere in produzione anche gli oggetti che rappresentano il percorso.

Andy: Nel mio caso, invece, c’è un elemento in più che vivo nella mia contemporaneità da tanto tempo: mi capitava di svolgere lavori di arte applicata, come dipingere un quadro su tela con i colori acrilici, i pennelli, l’uniposca per i bordi, la resinatura finale. Poi mi trovavo a digitalizzare il quadro e fare delle texture, anche col mio ex socio Fabrizio Grigolo, che è l’autore della prima fotografia della “Rosa spinata”. E quell’opera diventava quindi appunto una texture, che diventava a sua volta oggetto multiplo, che so, il logo per la nuova piastra per capelli, targata Andy Bluvertigo. Quindi il feticcio diventava stampato, messo in sequenza o proprio unificato in varie opere, in maniera completamente finta. Allo stesso modo succede questo per i live o tutto quello che fai, ad esempio i social network portano a riprendere un frammento della realtà ma riproposto in maniera altrettanto finta.

Io stesso ho provato dei filtri di bellezza, dove del mio viso rimaneva poco. Vedo che anche in tv vengono usati questi filtri che escludono tutti i tratti, per cui puoi presentare di te un’immagine completamente manipolata. Io in questo periodo sto lavorando proprio su questo discorso, grazie anche all’aiuto di Vanilla Innovations. Il mio laboratorio, il mio capannone dove opero e lavoro, si trasforma infatti in un’isola nel metaverso, dove si può trovare di tutto: dal primo capitolo de “L’ora delle distanze” e tutto ciò su cui sto lavorando con Lory, ai miei dipinti, le mie ricette di cucina, il mio studio musicale, il DJ set, in un’isola completamente virtuale. Dove però un domani, quando sarà possibile, l’intenzione sarebbe quella di portare le persone a passare un weekend esperienziale in un luogo vero. Questo avviene anche con la narrazione e il libro. Ho provato a organizzare una mostra nel metaverso e ci sono state 2.000 presenze da tutto il mondo, dall’Iran, dalla Francia, dalla Turchia, dall’America, è qualcosa che funziona e crea interesse.

Bisogna svolgere un percorso, prima pittorico, poi narrativo, stamparlo su carta, per poi ritrovarti a vivere l’esperienza, a contatto con gli autori che hanno svolto questo percorso. Questa cosa, secondo me, oggi è fondamentale, e ne ho capito l’importanza ancora di più proprio svolgendo il lavoro che sta all’estremo opposto, lavorando quindi su un’isola virtuale, dove tutto sembra un videogame.

È come stampare una serie limitata di un quadro che però hai eseguito manualmente. Dobbiamo sempre avere le mani sporche di colore e il mouse carico. Trovo proprio che una cosa alimenti l’altra: se manca uno dei due elementi, se ci si sbilancia troppo sul digitale piuttosto che sull’analogico o manuale, secondo me c’è qualcosa che non va.

Voi siete entrambi musicisti, ma come dicevamo Lory è anche scrittore mentre Andy è un artista visivo: quanto un’attività influenza l’altra?
Lory: Nel mio caso, come ti spiegavo prima, musica e narrazione a un certo punto hanno preso proprio una strada condivisa. Non che non funzionino separatamente, anzi, a volte ho proprio bisogno di separare le strade, motivo per cui mi piace lavorare in studio con altri artisti, produco altre band, altri cantautori, mi metto proprio nei panni del musicista, ma non quanto vorrei. Nel senso che, a volte, il ruolo di musicista reclama un pochino il suo spazio che sia anche svincolato da tutti questi continui rimandi e riferimenti, cosa che però nelle mie produzioni è quasi inevitabile. La formula che ho sempre praticato sin da ragazzino è quella di scrivere un racconto per poi, utilizzando la tecnica del cut up, estrapolare da esso il testo di una canzone. Questa formula, che è molto semplice in realtà, mi porta a fare quello che faccio. Quindi i due ambiti si influenzano moltissimo a vicenda.

Poi c’è l’aspetto visivo, quello più legato alla regia video, che va in una direzione invece un pochino diversa che, almeno nella mia volontà, è quella di rappresentare gli aspetti psicologici più profondi, sia se sto lavorando per me stesso che per qualcun altro. Quindi è inevitabile che le cose, anche in questo caso, si influenzino l’una con l’altra, come è successo con Andy, per cui quello che ha prodotto lui ha influenzato quello che io sono andato a scrivere. In fondo è la realtà stessa ad influenzare ciò che facciamo artisticamente, e la realtà ha una sua dimensione artistica quando non è terrificante, come purtroppo spesso accade. Ma anche l’orrore può avere una rappresentazione artistica, quindi siamo perennemente influenzati da quello che ci circonda, da quello che vediamo, secondo me.

Andy: Nel mio caso ho cercato di svolgere un percorso simile in entrambe le discipline, nel senso che oltre alla ricerca di questa “cartoonia”, come mi piace definirla, mi è sempre piaciuta l’idea di trovare dei punti di contatto tra pittura e musica, che sono i due linguaggi che mi rappresentano artisticamente. Cioè, se nella pittura hai una tela bianca e su di essa vai a inscenare quello che succederà nel dipinto, nella musica hai uno spettro sonoro dove poter decidere chi o cosa sta davanti nel mix, chi sta dietro, e via dicendo.

Sono sempre frammenti della realtà. Dei fotogrammi, delle varie fotografie prendono vita in vari aspetti nei dipinti. I campionamenti, invece, che sono fotografie sonore, diventano magari una ritmica, fatta di rumori o elementi tratti dalla realtà. Nella mia filosofia, musica e pittura si sono sempre mossi contemporaneamente, sono il balance per capire quanto sei centrato verso quello che ti piace fare, nel senso che, quando un elemento alimenta l’altro, vuol dire che stai lavorando bene.

Andy, sono passati 30 anni dalla pubblicazione di “Acidi e basi”, il primo lavoro con i Bluvertigo. Voi siete stati, nel panorama della musica italiana degli anni ‘90, degli innovatori avanti anni luce, sia a livello compositivo, che tecnico di ogni singolo musicista, che di produzione: ci sono oggi degli eredi, almeno spirituali, dei Bluvertigo?
Andy: Dunque, questo è un discorso un po’ complesso: penso che i Bluvertigo abbiano avuto la consapevolezza di vivere il percorso creativo con l’intenzione di sovvertire le regole. Anche allora c’erano delle regole per le quali il mercato discografico ostacolava tutto ciò che suonava diverso dal solito, perché uno degli aspetti più perdenti della mentalità discografica italiana è sempre stato quello di riproporre all’infinito le formule che sembrano funzionare. Ecco, noi abbiamo proprio sempre svolto un’azione di totale rottura verso questo meccanismo, mettendo la nostra vita artistica a repentaglio in ogni singolo istante.

Oggi trovo che nelle nuove leve ci siano talenti pazzeschi: per esempio, sono un grande fan del lavoro di Lucio Corsi, che per dieci anni ha preso calci nei denti e ciononostante è riuscito ad emergere, portando finalmente musica di grande qualità nell’ambiente mainstream, anche se in parte criticato per il fatto di rifarsi ad un certo tipo di immaginario, cosa a mio avviso ridicola! Anzi, la rivisitazione di vecchi meccanismi porta poi ispirazione e innovazione, i Bluvertigo stessi trattavano le epoche musicali come una tavolozza di colori, potevamo ascoltare dal Trio Lescano ai Nine Inch Nails ed eravamo incuriositi da tutto quanto, per cui all’interno di uno stesso disco era possibile riscontrare tante influenze differenti. Ecco, oggi penso che ciò che manca sia la totale libertà musicale. Noto che spesso, nonostante ci siano dei musicisti eccezionali, fanno comunque fatica a passare attraverso tanti generi, a sentirsi completamente liberi di sovvertire le regole, manca proprio quel tipo di elasticità: ognuno è incasellato in un certo modo e deve continuare a fare quello per cui è conosciuto, pena il rischio perdere la propria identità sul mercato, quando invece proprio la multi-identità musicale è una risorsa molto curiosa, molto bella.

C’è anche da dire che ai tempi dei Bluvertigo la mentalità da talent non c’era ancora: uno degli aspetti che non ho mai amato di questo tipo di produzioni – anche se ti confesso che, per pure questioni economiche, se mi chiamassero come giudice in un programma accetterei al volo – è il fatto di aver fatto sparire lo scouting, cioè i discografici, quelli veri, che la notte venivano a sentirti nei clubbacci dove facevi i concerti e proponevi la tua musica, c’era molto più spazio per gli inediti, era il solo modo di emergere.

Allo stesso tempo, non esisteva il meccanismo televisivo del confezionamento del talento, quello te lo confezionavi a pedate, se te lo potevi permettere man mano facevi crescere il tuo progetto dal nulla finché non ti inventavi il costume, la scenografia, gli strumenti più belli, i locali stessi miglioravano come qualità degli impianti audio… Oggi c’è un standard qualitativo completamente differente, anche in un circolo Arci trovi un super impianto, puoi fare bene il tuo mestiere, con i Bluvertigo andavano nei centri sociali fuori Bari, dove i mixer erano arrugginiti, ti lascio immaginare che casino fosse!

Quello dei talent è invece l`habitat del confezionamento del talento come dicevo, dove tu in quel momento rappresenti un certo target, con quel tipo di sonorità, di immagine, c’è poi l’intervista alla mamma, alla zia, alla cugina, insomma si va a creare una specie di fiction attraverso qualcosa che si svolge in poche settimane, dove ti ritrovi da subito le luci più belle, il trucco più bello, l’abito perfetto, lo stylist, come se avessi già raggiunto la vetta; è un po’ la stessa sindrome per la quale certi artisti suonano a San Siro senza essere ancora pronti a farlo, quando chi suonava negli stadi un tempo era, per fare un esempio, Bowie con il Glass Spider Tour, o gente che comunque sconvolgeva le classifiche avendo anche un peso intellettuale e artistico non indifferente: tutto ciò è conforme a questa mentalità televisiva del concentrare in tre settimane il percorso per il quale in genere ci si mettono anni, come ha fatto il già citato Lucio Corsi, che ora porta con sé tutta l’esperienza che ha maturato di serata in serata durante la sua carriera fino ad oggi underground, e io sono molto felice per lui, perché il grande pubblico l’ha accettato.

Lory: Le linee guida ci sono sempre state, alla fine le case discografiche sono pur sempre delle multinazionali votate al profitto, quindi io mi ricordo molto chiaramente quando gli stessi Bluvertigo sono diventati una linea guida, pur essendo una band che cercava in tutti i modi di uscire da quel meccanismo. La mia prima discografica fu Mara Maionchi insieme ad Alberto Salerno, che produssero il primo disco dei Plastìk, mia band dell’epoca, e tiravano in ballo i Bluvertigo ad ogni riunione citandoli come esempio, mentre noi ci guardavamo in faccia pensando ciò che probabilmente avevano pensato a loro volta gli stessi Bluvertigo: non vogliamo assomigliare a nessun altro.

Andy: Una cosa che ci faceva molto ridere era la frase tipica che ogni discografico dei tempi diceva a fine riunione con una band: Ragazzi, siete fortissimi ma io non posso continuare a fare Don Chisciotte contro i mulini a vento, e la realtà è che non l’ha mai fatto nessuno! Nessuno l’ha mai fatto. Un’eccezione poteva essere Stefano Senardi, che ha fatto veramente delle cose bizzarre. O Fabrizio Intra, che ci ha preso sotto la sua ala, Mauro Paoluzzi che ha messo i soldi e ci ha permesso di produrre “Acidi e basi”. Poi la Sony se ne è accorta, ma Fabrizio è stato uno che ha osato molto e si è affezionato al nostro modo di fare irriverente. Sono comunque rarissimi esempi.

Cosa c’è nel vostro futuro artistico? “L’ora delle distanze” avrà un seguito?
Lory: “L’ora delle distanze”, in realtà, ha appena iniziato a vivere: si tratta, nelle nostre intenzioni, di un progetto pensato per non essere a consumo immediato, quindi nelle sue varie possibili forme ha appena iniziato a farsi conoscere.

Sappiamo molto bene che cosa significa oggi fare un libro, un disco, che rimane negli scaffali per poi andare al macero, queste vale soprattutto per le grandi distribuzioni. Nel caso di una realtà indipendente si fa molto fatica a far capire che esiste questo lavoro. Noi lo stiamo facendo attraverso il live, tornando un po’ indietro nel tempo, facendo anche cose che non facevamo più da tanti anni, cioè quella di andare a esibirci nell’Arci di provincia, o nel teatro del paese sperduto per promuovere il nostro lavoro, raccogliendo però ogni volta un certo tipo di feedback che ci fa pensare che questo percorso sia in crescita.

Quindi penso che la volontà di entrambi sia quella di portare avanti questo percorso che, come succede con gli spettacoli teatrali, non ha una scadenza, quindi si accende laddove può essere accolto e prosegue. E’ chiaro che pensare a un periodo in cui le cose si fanno più intense è affascinante, uno si immagina un percorso dove c’è un tour più strutturato, però in realtà è un progetto dove, man mano che andiamo avanti, capitano delle cose, tipo quello che ti raccontavo prima, ti mando una base, ci reciti sopra, da queste cose potrebbero scaturire dei nuovi episodi anche musicali che riportano nuova linfa al progetto. Poi su una seconda puntata, un secondo viaggio tra pittura e narrazione, quello è uno step più impegnativo e forse prematuro.

Andy: Oggi i progetti sembra che abbiano una vita cortissima, invece la cosa molto interessante di questo nostro progetto è proprio la sua lunga vita, penso che sia una cosa preziosissima, perché si può evolvere nel tempo, senza avere per forza quella smania aziendale, per cui se un prodotto non ha  dato quel tipo di risultato devi già pensarne un altro; è vero ciò che diceva Lory, che il tutto potrebbe avere un’evoluzione naturale, il landscape sonoro che oggi magari accompagna un monologo sul palco domani potrebbe diventare un brano in tutto e per tutto, anche lo stesso libro potrebbe avere delle forme future al giorno d’oggi totalmente inaspettate. 

Lory: ci sono anche altri modi di far vivere l’esperienza del libro senza leggere il libro, o comunque portando il lettore da un’altra parte. È nato per essere un progetto molto aperto, magari un famoso regista ne tirerà fuori un film… Andy, ricordati che c’è sempre quell’email di Tim Burton a cui rispondere (ridono).

Articolo di Alberto Pani

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