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Pianura intervista

Gruppo emiliano che ha tanto da dire e tanto da far sentire in maniera tagliente

Il 17 ottobre è arrivato sulle piattaforme digitali il nuovo ep dei Pianura, “Sonic Pianura”. Freschi della loro avventura alle finali dell’Arezzo Wave abbiamo intervistato questo gruppo che ha tanto da dire e tanto da far sentire in maniera tagliente. Attendo in piazza San Francesco a Bologna, Stefano Bolzoni, cantante, bassista e autore dei testi. Gli altri componenti  – Matteo Falavigna chitarra, Carlos Ivan Cortés Lobos chitarra e seconde voci, Davide Zurlini batteria – saranno presenti in remoto da cellulare. Uno dei rari casi in cui in una band troviamo tutti i membri pienamente coinvolti anche in questi lati più “burocratici” della stampa. Stefano mi raggiunge al tavolino fuori, poggia la scarpa su uno sgabello, si allaccia lo stivaletto e va a ordinarsi una birra. Così, siamo due birre medie in un tavolino in un soleggiato pomeriggio. Trovo l’intervista che segue un’ottima fotografia della vita di una band in questi tempi, parlando di risvegli, politica, società, influenze, musica e ovviamente di… pianure.

  1. I Pianura: origini e suggestioni della e dalla band
  2. I Pianura e l’Arezzo Wave
  3. I Pianura: la realtà nell’irrealtà e lo scolpire un periodo emotivo e storico
  4. Sonic Pianura
  5. Sound and vision: l’Alternative e l’immaginario visivo dietro l’angolo

Origini e suggestioni della e dalla band

Partiamo dalle origini: come sono nati i Pianura?
In verità nasciamo da un progetto precedente che si chiamava “Andrea” e che ha avuto una serie di line up; si è formato più o meno poco prima del Covid e poi durante si è sfaldato come credo un sacco di esperienze musicali. In seguito lo abbiamo rimesso su con una serietà maggiore fino a quando non siamo arrivati ad avere la formazione che abbiamo oggi. È venuta fuori in modo interessante perché prima eravamo in tre: io, un chitarrista – che era Matteo – e un altro batterista. Abbiamo registrato il primo ep con un produttore con cui il primo batterista non era completamente d’accordo. Non aveva neanche la stessa visione nostra e alla fine è uscito, così abbiamo trovato Davide, dopo aver cercato tantissimo – perché di batteristi in provincia di Parma non ce ne sono più tanti a quanto pare e anche in provincia di Reggio – però siamo stati molto fortunati. Poi si è aggiunto Carlos; cercavamo una seconda chitarra e a dire la verità Carlos lo conoscevamo già da un sacco di tempo. Ci siamo alla fine ritrovati. Lui e Matteo avevano già suonato in un altro gruppo e ha letto l’annuncio di Carlos, quindi è entrato anche lui nella band e da lì è stato tutto in discesa: siamo così da tipo un annetto e mezzo o due.

Che differenza c’è con il progetto precedente, “Andrea”? Quali sono state le differenze anche a livello sonoro? Perché quindi non avete continuato a essere “Andrea”?
Il progetto di “Andrea” era molto più melodico, aveva delle componenti anche acustiche quindi era forse più debitore di una forma di Rock indie più nella sua dimensione britannica. Quello successivo invece, con la messa al centro delle chitarre – che sono diventate due – credo abbia preso più un’impronta di ricerca sonica più tagliente.  Credo che gli ascolti sono cambiati per una questione di gusto personale. La differenza è che è un suono molto più “tagliente a grattugia” rispetto a prima.

Non so com’era quello di “Andrea” però quello attuale sicuramente lo è.
Il nome è cambiato perché durante la registrazione di questa prima tornata di singoli Stefano Poletti che ci ha seguito (il chitarrista dei L’Officina della Camomilla) aveva un approccio molto più melodico, molto più pop e ci ha invitato a trovare un altro nome perché proprio a livello di riconoscibilità “Andrea” era troppo vario, troppo generico, e quindi ci siamo detti proviamo a determinare un nome che rispecchi un po’ quelle che sono le nostre sonorità, le nostre atmosfere.  Matteo un giorno è venuto e ha detto “Pianura” che secondo noi era assolutamente centrato e anche poco utilizzato, non c’era ancora nessuna band che si chiamasse così. A dire la verità la settimana scorsa sono entrato in una specie di collettivo di Modena per organizzare concerti e ho scoperto che c’è una band che si chiama “Padana”

Non fate mai un duetto con loro, sarebbe un problema di naming; sul disco sareste i “Pianura Padana”! 
Noi facciamo il lato A e loro un lato B… (ridiamo)

Il nome richiama molte suggestioni del vecchio indie, e il vostro sound rievoca moltissimo quel senso di insofferenza nell’entroterra, il “disagio di provincia” che ha creato molti gruppi indie negli anni ‘90; questo nome e queste sonorità richiamano moltissimo quel periodo: siete d’accordo?
Non è stata voluta ma è stata una cosa in cui ci siamo rispecchiati proprio dopo aver scelto il nome; in realtà la sua scelta è stata una casualità, poi dopo ne siamo stati forse più influenzati.

Se tu hai un nome “tecno” e magari non facevi quel genere potrebbe accadere che ti troverai a farlo; insomma in qualche modo il nome può segnare il destino del gruppo; in qualche modo sicuramente “Pianura” chiama questo tipo di suggestioni.
Credo che sia vero però dal mio punto di vista c’è anche l’elemento biologico: io vengo dalla provincia di Parma, che è diverso da venire da Parma perché Parma è una città molto signorile, molto borghese – non che la provincia non si sia globalizzata anche lei, ci sono i signori e i borghesi anche in provincia – però comunque nascere lì e avere certe atmosfere, certi scenari… Quando guardo fuori dalla casa dei miei genitori vedo la nebbia e l’inceneritore di Parma che è diverso da svegliarsi in centro città quindi c’è sicuramente un’influenza come c’è un influenza dei gruppi che sono stati forgiati dalla pianura. Secondo me c’è anche un trascorso antropologico; è un nome perfetto direi.

I Pianura e l’Arezzo Wave

Siete freschi dell’avventura dell’Arezzo Wave; com’è andata?
Io mi sono divertito tantissimo, sono stati tre giorni abbastanza rock perché quando ti incontri in un ecosistema formato da persone che fanno le stesse cose alla fine ti senti a tuo agio. Ci sono 20 altri gruppi a cui piace suonare, a cui piace la musica e che alla fine condividono una specie di esperienza con te quindi già solo questo è meraviglioso; in più ci hanno trattato benissimo – non è scontato nel mondo musicale – e ci hanno veramente accolto come se ci conoscessero da tempo sia come ospitalità che come persone. Per noi è stata la prima volta dentro un contesto così organizzato perché di solito suoniamo in posti un po’ più “puri”, e quindi Arezzo è stata un’esperienza incredibile. Poi abbiamo incontrato persone che ci hanno raccontato degli aneddoti legati ad Arezzo stessa che secondo me sono affascinanti quindi già solo sentire delle storie del genere ti gasa: senti dei nomi incredibili e ti senti parte di un percorso e di una storia che non fa mai male per chi fa quello che facciamo noi.

Arezzo Wave è stata una tappa fondamentale per la musica italiana indipendente, un po’ il battesimo di alcune cose storiche e di colonne sonore della nostra vita: voi siete consapevoli che scrivete la colonna sonora della vita a delle persone che vi ascoltano? Una grande responsabilità: cosa ne pensate voi?
Penso che sia un obiettivo; è la missione di rimanere nella storia per quanto piccolo è il progetto – per adesso – e magari non avrà impatto su niente o forse per qualcuno sì. Io sono più spontaneista, lo faccio perché ne ho un’esigenza a livello espressivo; è normale che nel momento in cui tu produci un qualcosa e lo strutturi a livello di proposta al pubblico un minimo vuoi lasciare che sia insito proprio nell’esperienza umana – dall’antichità, da millenni è così – però dato anche il periodo storico che è oggi e nel solco di un certo tipo di musica che è quella degli anni ‘90 (ma anche andando più indietro) c’è anche l’esigenza di esprimere qualcosa perché si deve comunicare in quel canale lì se no rimarrebbe tutto dentro, rimarrebbe una specie di blob che non sa dove uscire. Così invece prende una via molto naturale che è quella dello strumento e che è quella della parola quindi c’è sì una consapevolezza ma anche no, è anche una forma di esigenza espressiva.

Sì, credo che un musicista quando è molto onesto con quello che fa comunque vada al di là del lasciare solo il segno. Quando incidete un disco vi sembra di sigillare un periodo? Magari c’è una canzone nel cassetto da quattro anni che sta lì e che rimbalza come un pipistrello al buio e a un certo punto voi trovate il modo di liberarla; secondo me può essere l’esigenza di sigillare un periodo. Accade anche a voi questa cosa?
Accade anche a noi. Il primo ep che è già uscito e quello nuovo rappresentano secondo noi due periodi distinti sia in termini di sonorità ma anche in termini comunicativi; hanno due identità separate e sembra proprio di aver scolpito nella pietra due periodi storici per noi della band e personalmente a me piace molto l’idea che tra un disco e l’altro si possa segnare un po’ la linea di confine per poi passare a qualcosa di diverso a livello comunicativo, a livello sonoro, a livello espressivo; qualcosa che segni un po’ la demarcazione.

La realtà nell’irrealtà e lo scolpire un periodo emotivo e storico

Secondo voi cosa avete scolpito prima e cosa state scolpendo adesso?
Credo di essere stato mosso da grandi cambiamenti esterni, ancora di più in questo periodo che è oggi; ci sono delle vibrazioni e delle pulsioni che vengono dalla società civile che mi viene spontaneo frequentare e che sarebbe quasi ingiusto per me non portare nella mia musica perché spesso è quello che si fa cioè portare, come aveva detto Carlos una volta, la realtà nell’irrealtà nel senso che quello che facciamo è un prodotto che viene scolpito e quindi è letteralmente qualcosa che nel corso naturale delle cose non esiste cioè non esiste niente che rimane lì e invece questa cosa rimane e dentro quella rimanenza c’è tutto un movimento di situazioni, di fatti, di azioni che nel caso della nostra sensibilità ha chiaramente a che fare con una dimensione politica. Il grande stacco fra le prime canzoni e le seconde è che la dimensione politica e civile è diventata centrale; non ne faccio solo una questione di testi, ne faccio una questione sonora perché questo è un periodo tagliente, è un periodo ruvido, è un periodo quasi di risveglio ed è come se anche il nostro percorso abbia avuto questo stesso risveglio. Se ascolti il primo ep tre pezzi parlano un po’ più di vacuità e un’impostazione più sentimentale. Il successivo invece inizia a guardare a quella dimensione civile.

Questo ep è invece completamente concentrato sulla condizione politica affrontata poi da vari punti di vista – senza voler dare insegnamenti a nessuno – però la mia visione è che ci sia stato un risveglio. La prima persona che scrive i testi e quelle che che articolano i suoni si sono in un certo senso amalgamati e hanno preso la forma di questo periodo. Un periodo in cui chi è attento a queste forme di musica non può prescindere dal fatto che c’è un risveglio e lo si vede anche in tanti gruppi attorno a noi che magari cambiano rotta proprio perché non possono fare a meno di percepire questo stesso risveglio. Nell’ultimo periodo la gente ha iniziato a mettere in discussione quello che viene detto, quello che viene proposto dall’alto dai media, dal potere – e c’è fermento. Poi che questo fermento porti allo scontro, a un compromesso, a una novità o a tornare indietro non lo sappiamo ancora però secondo me chi ha una sensibilità nei confronti di questo tipo di realtà non può che poi tradurla a livello sonoro in qualcosa che può essere come noi o può essere anche un’altra roba ma è debitrice di quello che succede attorno.

Questo tipo di scelta a volte può portare all’interno dei gruppi dei conflitti; voi tutti avete abbracciato questo tipo di pensiero in un periodo politico e storico a cui non si può restare indifferenti?
Credo che ci siano sensibilità comuni e ci siano altre ovviamente un po’ differenti. A me personalmente piacciono più i temi universali; è anche un plus quello di sposare la causa. Non ci siamo seduti a tavolino a deciderlo.
(Interviene Carlos da remoto): Mi ricordo la prima volta che Stefano ha portato il testo di “Spara”; abbiamo reagito con un che ficata e pensato chissà dove andremo a finire, chissà il prossimo disco, chissà dove andremo con i contenuti perché scopri sempre pezzettini nuovi e ti metti anche in discussione. Una sfida continua ma affascinante dal mio punto di vista. Noi della band ci troviamo ad abbracciare queste identità.

(Riprende la parola Stefano): Scusami, io porto i testi quindi è chiaro che sia un po’ più esposto da questo punto di vista; ho una posizione che è chiaramente molto intransigente su certi argomenti che noi abbiamo esplicitamente appoggiato nel senso che è parte dei nostri testi. La causa palestinese per esempio, su cui magari poi possiamo discutere e avere visioni diverse, però come diceva Carlos ci sono magari dei temi di diritti civili che condividiamo. È chiaro che se non avessimo probabilmente più o meno la stessa linea d’onda questa divisione del mondo sarebbe difficile da condividere però è vero, quello che dicevi mi ha fatto pensare perché l’altro giorno ho visto un’intervista a Giorgio Canali in cui gli chiedevano: ma tu per le tue posizioni hai avuto problemi inizialmente? La domanda ha fatto chiaramente l’esempio esplicito di Giovanni Lindo Ferretti lui è completamente dall’altra parte però riusciamo a parlare.

Sonic Pianura

Immagino che dopo questo lp e questo ep ci sarà qualcos’altro
La questione di cui parla “Spara” è diventata di dominio pubblico. Ci tengo a dire che non è stata una mossa da paraculo, perché non è stato un saltare sul carro, noi questi pezzi li abbiamo registrati praticamente un anno fa. I pezzi dell’ep “Spara” e quello che esce di Giassetti sono stati registrati un anno fa, poi per traverse varie e distributive sono venuti fuori oggi. Ci tengo a dire che è tutto autogestito adesso a livello distributivo. Per quanto riguarda l’elemento dello scolpire, cade a pennello perché i pezzi dell’ep parlano proprio di queste pulsioni, quasi tutti. Le affrontano da vari punti di vista: “Spara” lo fa in modo esplicito, mettendo l’alienazione, vivendola come una forma di liberazione collettiva, cioè una lotta lontana ma che mira il sistema, che è il nostro alla fine, di gestione delle dinamiche politiche, sociali, degli spazi. Però anche gli altri pezzi, cioè “Marte e Marco” è la storia di due ragazzi, una ragazza e un ragazzo che fanno parte di un collettivo e che vivono tutte quelle che sono le contraddizioni di un collettivo in modo anche abbastanza ironico, rifacendosi magari a quella tradizione di tipologia di testi, che prendono le cose un po’ così, però parla anche di una storia politica; “Pianure” magari si rifà più a un immaginario, come dicevamo prima della pianura, ma anche lì parla di cellule, si fa riferimento alla tradizione anarchica; a metà c’è proprio un canto anarchico.

Poi c’è l’ultima che è “Sonic Pianura” che probabilmente è quella che esprime questa forma di dissidio nei confronti del presente, nei confronti delle narrazioni che ci vengono imposte, che ci vengono vendute, e che per fortuna si stanno un attimo aggirando, per quello che si vede in questo periodo, però lo fa più dal punto di vista sonico; si vede proprio come il suono definisce le tensioni di questo periodo, perché ci sono dei feedback, ci sono delle chitarre molto pressanti, molto potenti, molto massicce, che fanno proprio muro, a mio parere. Poi è chiaro che è una questione tecnologica, perché parliamo di pedali e amplificatori. Per le prossime cose non lo so, abbiamo un po’ di pezzi nuovi, già 3, 4, 5 pezzi nuovi che variano, alcuni sono addirittura, da un punto di vista sonoro, più cupi, più muro di suono, sono più alienati, perché sono stati scritti in un periodo in cui sembrava che tutto questo stesse scemando, e invece adesso è tornato su, e infatti le ultime cose che ho in tasca sono molto più vicine, magari, a quello che è questo ep che esce, e altre cose invece che trattano anche temi che non abbiamo affrontato.

C’è un pezzo che si chiama “Fiori” che non abbiamo ancora registrato, e che però parla della condizione delle carceri, quindi del fatto che le persone vengano mollate a loro stesse, e che vengano praticamente tralasciate, cioè che non gli si dia una speranza, anche in un’ottica di reinserimento; è un pezzo molto melodico, è un pezzo quasi romantico da un certo punto di vista perché secondo me è un tema così delicato che va affrontato anche così, non solo in modo arrabbiato. Quindi il prossimo passaggio non lo so come sarà, e mi rifaccio sempre a quello che ha detto Carlos prima: è un po’ il fascino del prendere dal presente; per fortuna le mani girano ogni giorno sulle chitarre, sui bassi e cose del genere, ogni giorno puoi cambiare quello che sei e quello che porti, per me è la libertà più assoluta che ci sia.

Quindi questo ep uscirà in maniera autoprodotta?
Sì, autoprodotta, anche per la produzione; chiaramente abbiamo un distributore digitale, però è una cosa che gestiamo noi, ci appoggiamo solo ed esclusivamente a una piattaforma, ma meramente il caricamento dati di queste cose le facciamo noi, le grafiche le facciamo noi, cioè funzioniamo veramente come una specie di… non voglio dire una collettiva perché non è così, ci sono altre dinamiche lì, però abbiamo un approccio cooperativo molto forte, tutte le decisioni passano per tutti, ognuno mette quello che può a livello anche di, banalmente, contatti per raggiungere un risultato che è quello di portare la propria musica su una serie di piattaforme che ci permettono di esprimere poi quello che facciamo; completamente indipendente, abbiamo avuto un’esperienza produttiva precedentemente con il chitarrista de L’officina della camomilla, ma ci ha notato perché semplicemente viene dal paese da dove vengo io, quindi è passato e ha detto ah, mi interessa, facciamo una cosa insieme in modo molto tipo, “no, non siamo in alcun modo vincolati”, che è un pro da certi punti di vista, per le dinamiche del mercato ma anche un contro da altri punti di vista perché fai fatica a trovare delle date, fai fatica a avere un certo tipo di organizzazione ed effettivamente per il mondo che è oggi, che è molto complicato e complesso anche a livello di gestione, devi fare tutto da te, quindi comunque devi spendere tempo.

Io lo faccio molto volentieri, anzi mi piace anche un po’ metterci le mani, ed è carino perché poi adesso, prima con Sara che è la compagna di Carlos gestivamo tutta la parte manageriale, e abbiamo anche Jasmine che è la mia ragazza che fa tutta la parte foto (la foto che vediamo nell’articolo viene dal repertorio della band e sono di Jasmine Zanirato, scattate con macchina analogica)​​, la parte video e che quindi traduce a livello visivo quello che siamo e dà la sua interpretazione. Funzioniamo veramente come una specie di cellula che si muove e che porta i propri contenuti ma che non deve dare conto a nessuno a livello artistico. Lo fanno in tanti altri ed è bello perché è un po’ un parallelo di quello che sta facendo la gente adesso cioè si fa le cose da sé, si informa, va da alle altre persone e dice io so fare questo, tu sai fare quell’altro allora dai facciamolo insieme. Si è ritornati a una logica molto comunitaria e secondo me funziona. Con questo gruppo mi sento a mio agio in questa condizione, poi se arriva qualcuno e dice ti do una mano non è male, però chiaramente deve credere nel progetto quanto ci crediamo noi, almeno io la penso così. Stare tre giorni a contatto, durante l’Arezzo Wave, con un’altra ventina di gruppi ti permette di confrontarti anche su come si muovono gli altri, perché comunque oggi ci sono diversi canali. Tu prima andavi lì a rompere le palle ai locali e secondo me ora è un mondo intasato di mail; la gente non ha tempo di leggere mail, quindi l’unico è spostarsi, andare lì in presenza e conoscere persone.

Non esiste più il ruolo del musicista “io suono e basta”. Se ci sarà l’opportunità ben venga, è sempre uno step, è sempre una cosa nuova, affascina sempre quella cosa lì di scoprire nuove cose. Giorgio Canali diceva “io faccio un rock che è un rock di fianco come genere”; noi facciamo un rock che è un rock di fianco perché noi non facciamo punk, non siamo un gruppo punk, non facciamo un punk hardcore che ha il suo giro. Noi abbiamo delle tematiche che magari sono vicine a certi mondi ma da un punto di vista sonoro facciamo qualcosa di melodico e molti gruppi che sono avvicinabili più o meno a quello che facciamo noi suonano e girano perché hanno una fama pregressa e perché magari hanno dietro delle strutture organizzate che gli danno una mano come le case discografiche.

Sound and vision: l’Alternative e l’immaginario visivo dietro l’angolo

Sicuramente volete preservare il vostro messaggio, il vostro modo di essere, perché molti per arrivare a più persone scendono a compromessi di genere, di sound.
Per un sacco di tempo la roba alternativa la vai a cercare veramente lontano: Stati Uniti, l’Inghilterra, Germania e poi a un certo punto ho scoperto che ce l’avevo dietro casa.

Poi tra Reggio e Parma c’è stato anche un mondo visivo: Luigi Ghirri ha creato un immaginario, ha rappresentato uno scenario incredibile proprio su queste zone
Da Ghirri a Pesaresi, un fotografo romagnolo incredibile, andiamo da Tondelli a il Tonino Guerra di Nostalghia di Tarkovskij – a livello visivo c’è tanto che non deve essere una forma di vanità nazionale come diceva tipo Bacconi; si sono appropriati di questa cosa spesso altri tipi di narrazioni ma bisogna riprendersele perché sono veramente delle radici, delle territorialità che noi portiamo ma non uguali, chiaramente non calcate, sembravano finite ma in realtà sono estremamente contemporanee. Carlos l’aveva detto durante un’intervista, per me è stato illuminante.
(Prende la parola Carlos) Anche la mossa dei CCCP a Reggio Emilia di aver fatto la mostra su di loro: anche da quella ho capito veramente il posto in cui vivo, io vengo dal Cile ma vivo qui. Per me dovrebbe essere permanente.

Torniamo al sound; precludete qualche genere oppure potrebbe accadere che in futuro potreste uscire fuori con un disco totalmente acustico e con un disco totalmente elettronico?
È chiaro che ascoltando varia roba io non so dove potrà andare a finire; a livello pratico il fatto che comunque nessuno di noi suoni tastiere è chiaro che un minimo ti preclude, poi non vuol dire che nel futuro non può arrivare gente… L’acustico in realtà noi l’abbiamo suonato in un paio di live; quando suoniamo queste canzoni in acustico hanno quel sapore… “Marti e Marco” quando viene fatta in acustico è leggermente rallentata, guarda a quel mondo degli anni ‘90 che però riprendeva gli anni ‘60 e secondo me non è una brutta via. Se arriverà un album elettronico ben venga così posso finalmente fare un cazzo di rave che si chiama “Pianura Teck”.

Ora non resta che ascoltarli con il loro nuovo lavoro “Sonic Pianura”.

Articolo di Mirko Di Francescantonio

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