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Revelè intervista

Cantautore partenopeo che mescola Pop elettronico, sonorità urban, atmosfere cinematografiche e testi profondamente viscerali

Giuseppe Cacciapuoti, classe 1997, in arte Revelè, è un artista, attore e autore partenopeo la cui ricerca abbraccia la musica, il teatro e la scrittura come forme complementari di una stessa tensione poetica. Il progetto mescola Pop elettronico, sonorità urban, atmosfere cinematografiche e testi profondamente viscerali. Sono usciti i suoi primi singoli, “‘O Mar ‘O Mar” e “Himalaya”, e a breve in arrivo il primo ep.

Giuseppe qual è la tua storia, quando è nato in te l’amore per la musica, e soprattutto la decisione di intraprendere una carriera musicale?
La cosa che mi ha formato, che mi ha plasmato di più è il fatto che ho avuto un padre che è stato un grande colto della musica, una persona che era appassionato a tutto ciò che era musica, che fosse orientale, americana, italiana, qualsiasi … Quindi probabilmente l’amore per la musica, la scintilla, è nata quando eravamo insieme in casa, e lui sparava la musica a alto volume da casse potentissime, e questa cosa la faccio tuttora io, sparare la musica a mille, insieme a mia sorella gemella, che è la cantante del ritornello che c’è nel nuovo singolo “Himalaya”.

Durante il corso degli anni, a causa di quella perdita prematura di mio padre, ero diventato balbuziente. Questa balbuzie ha portato a scrivere le emozioni su carta, perché dalla penna non mi sentivo giudicato, dagli altri sì, quindi mi permetteva di essere libero e mi accorgevo spesso che nella mia testa si creavano già delle melodie, dei trilli, non so come spiegarlo, delle ripetizioni in loop, che spesso scrivevo quasi in poesia, pur senza regole. Poi durante il corso della crescita, sia io che mia sorella, siamo andati verso percorsi artistici.

Anche mia madre da piccola cantava, e ci ha sempre permesso, anche probabilmente a causa della perdita di mio padre, di essere liberi, di sognare quello che volevamo fare. E questo ha fatto sì che durante il corso della mia adolescenza io andassi a studiare da autodidatta tutto quello che era la musica. Inizialmente, passando da Bruce Springsteen, Brian Adams e Tracy Chapman, che erano i miti di mio padre, ho studiato la musica elettronica, perché ho fatto il DJ per anni, quindi ho studiato il BPM e su come la musica ha un’influenza sul corpo, sulle emozioni.

È stato un percorso vario, strano, mia madre mi ha acquistato la prima chitarra, e sono finito a fare arte in generale, ho fatto radio, ho fatto recitazione, ho fatto tutto quello che, in realtà, cerco poi di trasmettere nelle mie canzoni. Quello che mi piacerebbe portare anche negli show è una teatralità, è un modo di vivere la musica in un modo un po’ diverso, come se si aprisse una tenda, stile teatro, e inizia lo show.

Quindi all’inizio la musica è stata un po’ una comfort zone, un’autocura, sulla quale hai costruito la tua proposta artistica di qualità.
Il suono perfetto non esiste, però io tendo sempre al perfezionismo. Ti faccio un esempio della mia personalità: negli anni ho dovuto fare il capo animatore, quindi scrivevo e dirigevo spettacoli, e ricordo sempre questa sequenza di poveri animatori che volevo rendere attori e gli facevo rifare da capo tante volte le prove, continuamente, luce perfetta, cambio perfetto, azione perfetta, passo in quel punto, ecc. Perché mi piace molto essere un po’ l’art director della messa in scena. La costruzione è la fase più importante, e poi di conseguenza il mio concerto va, perché se è costruito in un certo modo, sono dell’idea che tu lasci un’emozione forte alle persone, se ti arriva un impatto di un certo tipo.

Poi ci sono altre situazioni in cui è molto bello anche semplicemente lo sgabello, la chitarra acustica e il cantare, però deve essere una scelta artistica. Penso ci siano canzoni che vanno rappresentate in quel modo, altre che devono essere rappresentate, soprattutto in un mondo contemporaneo, dove ormai abbiamo la possibilità di fare video in alta definizione, sono dell’idea che dovrei cercare di portare sempre il massimo di quello che mi è permesso. Ed è proprio per questo che nei miei live vorrei anche raccontare la canzone, la storia che c’è dietro prima di suonarla.

La tua non è solo musica, è il centro e il cuore della tua espressione artistica. Però la musica che fai è diversa dagli ascolti iniziali, soprattutto hai incorporato le tue radici napoletane.
C’è un coro che si fa allo stadio, che è Siamo figli del Vesuvio, forse un giorno esploderà. Il napoletano sa che da un momento all’altro potrebbe esplodere il vulcano, e forse proprio per questo vive in modo molto teatrale, con delle emozioni… Io ho vissuto a Bergamo, a Milano, in Svizzera, a Roma, e lì di solito l’emozione si tira fuori fino a un certo punto, mentre da noi invece se succede qualcosa c’è un’esplosione di felicità o di tristezza o di rabbia in un modo molto teatrale. Penso che tutti i napoletani abbiano dentro questa cosa, Poi noi napoletani abbiamo la fortuna di crescere con i grandi della musica, Pino daniele, i Bennato, e molti altri, che i genitori ti fanno ascoltare fin da piccoli, vuoi o non vuoi, e se non sono i tuoi genitori, è la città stessa a cantare quelle canzoni, oltre al Neomelodico che è un altro genere. Io probabilmente l’ho vissuto ancora di più questa esperienza, visto che sono stato strappato via da Napoli da piccolo per ragioni familiari, e paradossalmente l’ho studiata ancora di più. Quando vai via dalla tua città, è come se quella città diventasse l’eroe, un po’ come l’eroe da idolatrare, da studiare. E questo ha portato a covare in me un senso nostalgico, malinconico, che già fa parte del popolo napoletano. E in più a studiare quello che spesso un napoletano non si rende conto quando è lì, cioè che quando torni prevedi delle differenze molto forti rispetto ad altri popoli, che in un certo senso sono vita. Io spesso quando vado a Napoli preferisco andare da solo, amo girare i Quartieri Spagnoli, il rione Sanità, il porto, i mercati, perché c’è un modo di vivere che è molto semplice.

Il tuo percorso musicale inizia con due singoli, “‘O Mar ‘O Mar” e “Himalaya”, dimmi qualcosa di entrambi e se c’è altro in preparazione.
Certo! “‘O Mar ‘O Mar” è un brano evocativo, rappresenta la vocazione verso un mare di ricordi. Quindi casa, rappresenta proprio casa. E rappresenta Napoli di un ragazzo che ci ritorna e la rivorrebbe nel posto in cui è. Ma il ricordo avviene attraverso dentro di sé, è un richiamo alle origini, un richiamo nell’accettare il fatto che quello che ci ha influenzato nella vita è sempre lì, i ricordi sono sempre lì, sono la cosa più importante della vita crescendo. Spesso quando cresci, quando sei piccolo ci sono solo i sogni. Quando sei grande ci sono sì, i sogni, ma anche i ricordi. I ricordi sono comunque quello che ti influenza nella vita, e Napoli, quel mare, rappresenta sia gli affetti sia Napoli stessa.

Mentre “Himalaya” parla principalmente di sogni, o meglio di un sogno specifico che in questo caso è l’arte, la musica. E quindi il mio modo di vedere il raggiungimento di un sogno, questo scalare una montagna, che in questo caso è la catena montuosa più alta al mondo, e quindi che probabilmente sarà molto difficile, molto arduo, ti mancherà l’aria in alcuni momenti, ma che con grande difficoltà ce la farai se non con la forza dell’amore per la tua passione. Ci saranno tante difficoltà ma ci arriverai, perlomeno è quello che mi dico sempre.

Per quanto riguarda invece nuovi brani, già sono stati scritti, già alcuni sono in produzione, altri sono in fase embrionale; in realtà quelli che dovranno uscire sono quasi tutti in fase di produzione. Ci sarà un terzo singolo tra fine novembre e inizio dicembre, e poi ci sarà un ep conclusivo a fine gennaio 2026 che riprenderà i tre singoli che sono usciti più tre nuovi. E probabilmente all’interno di questi primi sei ce ne sarà uno interamente in italiano, perché il primo ep deve raccontare le origini, e le mie origini sì sono l’essere napoletano, ma essendomi io trasferito a 13 anni e mezzo a Bergamo, ho dovuto accettare il fatto di comunicare in italiano, perché da me non si comunicava in italiano, si comunicava esclusivamente in napoletano, quindi anche questo brano in italiano mi rappresenta.

Quello che mi hai detto dei due singoli usciti è totalmente coerente con quello che mi avevi già raccontato prima, cosa grandiosa per un artista giovane come te! Mi vuoi anticipare qualcosa di più di questi nuovi brani in produzione?
Ti posso dire che il terzo parlerà della perdita importante di una persona nella propria vita. Per me è stato mio padre, la perdita di un genitore è sempre qualcosa che ti segna, già è difficile da grandi, figurati da piccoli, a nove anni ti devasta. Il lutto ha sicuramente plasmato il mio carattere, così tanto che ho scritto questa canzone che si chiama “Come si fa”, che dice espressamente come si fa nella vita a non rivedere più gli stessi occhi di quella persona.

Ti ha aiutato emotivamente scriverla?
Sì. Iniziare a scriverla mi ha fatto male, però poi ti dà libertà, ti dà modo di sentirti più leggero. E la cosa più bella è vedere altre persone che riescono a rivedere i propri familiari persi o il proprio amore, attraverso quelle parole, per me vuol dire che è diventata poi in un certo senso universale.

Ora una domanda apparentemente molto banale che però ci fa conoscere meglio il musicista che c’è in te. Quali sono i tuoi dischi del cuore?
Domanda difficile! Perché ci sono state delle influenze fortissime, ora che mi ci fai pensare, le quali mi hanno fatto diventare Revelé, probabilmente è stata la fase in cui mia mamma, che aveva perso appunto il suo amore, cantava sempre in casa canzoni di Alex Baroni, canzoni bellissime che c’erano al tempo, e la prima Elisa. E poi sopra tutto c’è stata l’influenza di Pino Daniele, soprattutto quello più blues, e quello che adoro di lui è il fatto che ha cercato di rendere la musica molto semplice, con testi molto semplici ma che davano libertà.

Articolo di Francesca Cecconi

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