
Bologna, 8 maggio. Nassau è un locale da trovare tra vicoli e stradine. Un faro perfetto per un avventuriero serale: improvvisando una camminata per la città, senza dunque destinazione stabilita, sarebbe bello incappare in questo posticino, è un piacevole imprevisto. La preziosità e l’intimità del contenitore si rifletteranno nelle storie che sentiremo al live di stasera.

Io e la fotografa entriamo; la band sta provando. Dal corridoio sentiamo i suoni del sound check; sono indizi, profumi: mediterranei, orientali, ci sono spezie da terre bagnate da un mare comune. Ci sediamo in sala e li lasciamo provare; attendiamo tra legno scuro, tappeti e vino rosso. Vi dico gli strumenti mentre osservo la band provare, nel mio fresco ricordo: loro sono Costantino Polidoro (voce, bouzouki, oud, saz, chitarra acustica), Serena Romanelli (backing vocal), Roberto Rettura (synth, campionatore, percussioni), Amedeo Santolini (chitarra elettrica, baglamas, cümbüş).

Saluto i ragazzi e chiedo qualche anticipazione. Roberto Rettura mi racconta dei suoi pedali e dei synth che userà stasera. Roberto è un tipo divertente: ti guarda con quegli occhi seri e chiari e poi ti spiazza con dei racconti vagamente surreali rimanendo serio: ti vien voglia di esserci stato, mentre ti fai due risate, in quelle avventure. Serena ci accoglie cordialmente e sorridendo. Con Costantino mi fermo a scambiare due chiacchiere sulla scaletta. Gli dico che dopo aver sentito il disco tante volte sono io stesso emozionato di poterlo ascoltare finalmente dal vivo. Mi dice che eseguiranno i brani del disco, una cover di una canzone greca e attenzione, forse un inedito. Gli chiedo qualcosa su quest’ultimo: i brani dell’album sono stati presi o ispirati dal poeta abruzzese e lancianese Pietro Mammarella e sono in dialetto. E per l’inedito? Io non parlo molto il dialetto, così ho scritto un testo mio in italiano, su una storia vera. Una chicca di stasera dunque, e noi di Rock Nation ve la raccontiamo in anticipo.

Guardo la sala, è piena di cuscini su cui sedersi, sopra i tappeti; mi ricordano tanto i secret concert che si tenevano anni fa qui a Bologna la domenica pomeriggio nei salotti privati. La sfida, ora, rispetto a quando avevo 30 anni, è sedersi senza sembrare troppo goffo e ingolfato. Cercherò di essere agile nel fare atterrare il mio sedere in quel cuscino colorato, snello. Sfida andata a male. Qualcosa ha scricchiolato. Qualcosa che ora non mi serve. Le luci si abbassano. Sta per iniziare l’esibizione.

Non è stato facile fare il soundcheck con questi strumenti, esordisce Costantino al microfono. Lo credo bene: se un fonico di un locale dovesse essere abituato a chitarre, bassi, synth, batterie e voci, stavolta deve essere stata dura: molti di questi sono strumenti del mediterraneo orientale, in particolare di area greco-turca, mi ha detto Costantino.

Sentiamo un synth tenere un tappeto fisso e sottile su una nota, creando attesa. Roberto è dietro a tanti cavi, sintetizzatori e pedali e mantiene la sua aplomb. Costantino inizia ad arpeggiare: “Mà dette scì” è un brano travolgente con un ritmo sempre più incalzante non appena partono le drum. Il chitarrista Amedeo crea con la sua Fender un corridoio di delay su scale orientali. Il brano, anche dal vivo, è più che riuscito.

Ci saranno un po’ di cambi acrobatici di strumenti, dice Costantino riscuotendo i primi applausi e introducendo il prossimo colpo in canna. Ci racconta intanto del disco.

I pezzi nascono da una serie di coincidenze. Durante il periodo del Covid eravamo tutti a casa e cercavamo di tenerci occupati. Io ero lì a ricostruire l’albero genealogico della mia famiglia e mia madre era in Abruzzo. Trovò un libro di questo poeta lancianese, Pietro Mammarella. Lui mi insegnò in primina. La cosa che mi ha colpito è che in questa raccolta di sue poesie c’era una dedica a mio nonno. Ho iniziato a cantare questi testi e a farli sentire ai miei amici. Così, ecco il disco, che ha iniziato inaspettatamente a girare. Non era previsto.

In “Pecchè” imbraccia la chitarra acustica; ha un inizio apparentemente più drammatico rispetto al brano precedente; ci sono accordi secchi a vuoto e una drum molto secca. Tutto si spalma su un’arpeggiata ma anche su cambi frequenti di stanze sonore più cupe. Sentiamo Serena affiancarsi a lui con la voce: funzionano molto bene insieme. Lei interverrà più volte nei brani, rafforzerà Costantino, moltiplicheranno le vibrazioni.

Il successivo “N’se’tu” è un brano assolutamente ballabile. Parla di equivoci. Strade prese che poi non si riconoscono. Costantino cambia ancora strumento passando a un saz. Roberto scioglie le briglie ai synth, dirige il ritmo come un dj. Qui abbiamo un mix tra dialetto lancianese e inglese, sembra una sorta di Rap del sud, il tutto è molto danzereccio e poggia su un giro di basso campionato. Nella parte strumentale diventa sempre più disco, il chitarrista Amedeo ad un certo punto squarcia l’aria, crea un temporale elettrico con poche note.

Ho avuto difficoltà. Una poesia d’amore. Sono stato turbato, non sapevo come farla. Ho tentato tante versioni, perfino una alla George Michael ultimo periodo, quindi danzereccia. Una notte ho trovato la chiave. Di notte mi vengono le idee. Farla con due strumenti greci. Così ascoltiamo la breve e dolce “Nu ddù” che vede Serena come lead vocalist. Il chitarrista ha un piccolissimo baglamas. Un pezzo molto toccante, credo che sia riuscito, sonoramente, ad accorciare chilometri di mare e unire più terre in un’isola fatta di due persone e tanta storia.

Momento di presentazione della band prima di arrivare a “Rondini”. ll brano è ispirato alla poesia “Settembre”, sempre di Pietro Mammarella. Ho preso un verso che mi ha stupito per la quantità di “s” presenti: “Nghe isse, se putesse… partesse pure ji’.

Vuol dire “con loro [le rondini], se potessi partirei anche io”. (Ve la traduco, sono abruzzese anche io). Roberto Rettura ora è anche allo shaker, sentiamo gli strumenti poggiarsi su un ritmo molleggiato; anche qui abbiamo a che fare con qualcosa che ha il ventre nel sud. I brani dell’album sono stati quasi tutti eseguiti. Siamo tutti entusiasti di ciò che abbiamo visto e sentito finora. Eppure ora arriva la seconda parte: quella delle chicche e che forse ci farà dare uno sguardo sia al futuro che al passato per quanto riguarda le produzioni di Disangro. Questa è una cover. Questa band mi ha fatto scoprire delle fusioni che all’epoca non avevo ancora sperimentato.

Ecco quindi che Disangro ci svela alcune radici del suo sound: esegue “Fatmah” degli Almamegretta. All’inizio ci sono solo synth e voce: l’attenzione è puntata su quest’ultima come fosse un riflettore, poi avanza l’oud che imbraccia Costantino. Il caso ha voluto che di fianco a me ci fosse un mio amico napoletano. Gli chiederò come l’ha presa, non sono una band facile da riproporre. Scusate il napoletano un po’ abruzzesizzato scherza Costantino. Ma anche queste sono miscele mediterranee, le onde continuano a sottrarre e a portare, a raschiare e a rigettare da terra a terra, ogni costa continua ad essere baciata da racconti vagabondi lontani. Nascono racconti, canzoni, miscele. Frasi non finite vengono concluse altrove. Dialetti bagnati a loro volta da altri. Stasera abbiamo udito il suono di una bellissima spuma.

Questo è un pezzo tradizionale greco. Viene da Creta. Tutto questo è nato quando nel 2011 frequentai la scuola Ivan Hillich dove in un corso conobbi una famiglia di Creta. “Sta Kafàsia” parla di un amore tra una ragazza musulmana e un ragazzo cristiano. Un vibrare da mandolino accompagna un fischiettare cinematografico iniziale. Serena torna come lead vocalist. Sul palco è sempre molto tranquilla, sorridente. Il brano sembra una specie di fado greco, ha un moto oscillante, ci aiuta a navigare con l’attenzione e sfuma su Roberto che fa partire sul finale voci campionate da strada. Molto bello. Finirà nel prossimo album? Spero di sì. Anche qui, il mare ha portato le sue storie a riva.

Siamo quasi in chiusura. Mancava l’ultimo brano del disco all’appello, dopo la pausa cover. In “Me voje fa’ nu sonne” il poeta si è scritto una ninna nanna. Forse pensava a sua madre che non c’era più. Io ho riscritto alcuni versi. Anche qui Roberto, nella sua entrata con strumenti elettronici, mi ha ricordato le sonorità dei Portishead di “3”. Arriva il momento dell’inedito: “La nave per New York”. “Questa l’ho scritta poco tempo fa. Vediamo come viene. Statemi vicino. Statemi vicino. Una cosa bellissima da dire a un pubblico. Questa è una storia del ‘900: il mio bisnonno decise di andare in America. Nei suoi viaggi conobbe un amico greco. Chiamò uno dei suoi figli come lui. Costantino, solo chitarra e voce, esegue l’inedito: ha un che di cinematografico, un cantautorato delicato, curato, fischiettato, di altri tempi. Bagnato dal novecento, la marea del tempo. Molto molto interessante.
Il gruppo chiude con un reprise del brano più diretto, un “N’se’tu” reprise. La sensazione è quella di aver assistito a una serata intima e genuina. Il disco e il live sono davvero consigliati a chi sta cercando sonorità orientali/mediterranee in chiave elettronica. Ultimamente in Italia credo che stia riaffiorando e avanzando sempre più questa tendenza a cercare temi nell’entroterra per quanto riguarda i testi e sonorità bagnate dalla “terra di mezzo”: il Mediterraneo. E allora navighiamo, ma non su Internet.
Articolo di Mirko Di Francescantonio, foto di Giovanna Dell’Acqua
Set list Disangro 8 maggio 2025Bologna
- Mà dette scì
- Pecchè
- N’se’tu
- Nu Dduù
- Rondini
- Fatmah (Almamegretta cover)
- Sta Kafàsia (tradizionale greco)
- Rondini
- La nave per New York (inedito)
- N’se’tu (reprise)