
15 giugno, terza ed ultima serata del Firenze Rocks, il festival rock più importante del nostro Paese, organizzato da Live Nation Italia in collaborazione con Le Nozze di Figaro, che si è chiuso con un dato importante di pubblico, che ha toccato le 110.000 presenze sui tre giorni, con fan provenienti da tutta Europa. Il caldo allucinante che affligge da sempre questo festival non dà tregua, oggi bollino rosso della Protezione civile in città. Ma tra cappelli con visiera, occhiali da sole, bottigliette d’acqua fresca, riusciamo a sopravvivere in nome del Rock.
È una serata un po’ strana, ma meravigliosa: sul palco si alternano band Alt Rock (i toscani Revue), di puro Punk (i sempre toscani Punkcake), di Post Punk in puro British style (Bad Nerves e Shame), e infine, prima degli headliner, gli storici portabandiera del Surf Pop Punk Weezer.




I Punkcake, dal Valdarno, salgono sul palco alle 15.45 sotto un sole rovente. Band giovanissima, versatile. Capelli fluo, sono tutti in gonnellino kilt. I primi due brani sono cantati dalla voce maschile, che poi si scambia con la bassista a voce e quattro corde. Sembra di essere nella Londra anni 70, punk grezzo, cazzuto. Hanno la bandiera della Palestina sulla batteria. Parliamo del referendum. Non abbiamo usato il nostro diritto di voto. Brava gente, veri pezzi di merda! Mezz’ora in tutto, ma il loro biglietto da visita è arrivato forte e chiaro.



Torniamo a recensire i Bad Nerves,(qui il report e la nostra intervista esclusiva) dai club ai grandi festival open air il risultato potrebbe cambiare. Prima di salire sul palco, ore 16:30, ci sparano “Rock N Roll Radio”, questa è sincerità, amore, fedeltà per i Ramones, che si sentono eccome come principale influenza della band britannica. Sullo schermo solo il loro logo, azzurro su fondo nero, sulla batteria il logo è scritto con lo scotch bianco. Sono coerenti, che sia appunto un piccolo palco o questo immenso, ci vorrebbe un monopattino per muoversi da una parte all’altra.


Come va, come va, come va? We are Bad Nerves all the way from Essex England, we’re very glad to be here. Can you male as much noise as you possible can for Bad fucking Nerves! Mentre li ascolto mi rendo conto che insieme ai Ramones hanno impastato anche molta farina del sacco Oasis, e penso a quanto questa band influenza tutt’ora pesantemente tutto l’Alt Rock e il Post Punk prodotto nel Regno Unito. 55 minuti in tutto, quanto basta per spettinare le nostre capigliature intrise di sudore, con interazioni frequenti, incitazioni a saltare e applaudire. Il frontman chiude la presentazione dell’ultimo brano con Faaaa caldooooo! This Is fucking rock’n ‘roll!!!


Ore 18:00, salgono gli Shame, anche loro con il solo logo arancione su fondo nero, niente cotillons. Basso distortissimo, plettrate violente, e nonostante qualche stonatura del cantante sul primo pezzo, ci riversano addosso un muro di suono violento, pesante, massiccio, compatto, e allo stesso tempo pulito, ogni nota è netta e ben percepibile.



Hanno una presenza scenica e una padronanza del palco pazzesche, con continue incursioni del frontman nel pubblico, che si lancia in svariati crowdsurfing tirandosi dietro pure iil cavo del microfono. Ci incantano, e come topi del pifferaio magico, cadiamo in trance e iniziamo a seguire e ad amare follemente questa band, che propone un Post Punk personale, complesso, decisamente originale e di livello assai superiore a band simili che vanno per la maggiore. Un tiro pazzesco. Spero di rivederli presto, da headliner, perché il tempo del live è volato in un attimo, e vorrei ascoltarli per almeno due ore invece. Vabbè, mentre aspetto il cambio di palco, vado in rete e mi rodino subito tutti i vinili, e mi consolo così per il momento.



E non è facile per gli Weezer, ultimi opener, fare il loro live dopo gli Shame. Gli animi si raffreddano un pochino, l’obiettivo della loro musica è diverso, più ballereccio, nonostante la loro enorme professionalità e ottima tecnica. Sono vestiti come per portare fuori il cane, hanno strumenti classici, 4 e 6 corde Fender (ma con cinghia Gibson, hahaha) e non è il look che a loro interessa, sono davvero molto concentrati sulla performance, nonostante sul maxi-schermo compaiano oggi per la prima volta proiezioni di immagini – molto varie e disconnesse tra loro.



We’re from California, let’s Rock! E davvero non potrebbero essere che californiani, suonando buon tipico Surk Pop Punk, con armonizzazioni vocali di stampo chiaramente alla Beach Boys. Il giusto intro per i Green Day, senza dubbio.
Articolo di Francesca Cecconi

Una volta terminati gli intergalattici Weezer e dopo aver cantato sul DJ set di Virgin Radio, giunge il momento dell’attesa frenetica per la band protagonista di questo ultimo giorno del Firenze Rocks: i Green Day. La Visarno Arena è completamente piena, e i presenti sanno cosa li aspetta prima dell’arrivo della band californiana. Difatti, alle 21:30 i riflettori illuminano il pubblico, e l’inconfondibile coro introduttivo di “Bohemian Rhapsody” dei Queen culla l’Ippodromo, preannunciando l’inizio di una serata memorabile.

Cinquantamila voci cantano sulle note del brano, tutti si stringono per intonare con precisione il ritornello, e con uno schiocco di dita lo stato d’animo del pubblico cambia con la riproduzione del secondo pezzo in apertura, “Blitzkrieg Bop” dei Ramones. Il pubblico adesso ha modo di scaldarsi, grida al vento l’iconica frase Hey Ho, Let’s Go e si sente sempre più vicino all’arrivo dei Green Day.

Finalmente, eccoli che corrono sul palco allestito in maniera sfarzosa, con colonne di luci, casse Marshall, e un enorme pugno stretto attorno al cuore-granata che si gonfia alle spalle della band. A chiudere la fila il frontman Billie Joe Armstrong, che con tre accordi infuoca la Visarno e inizia ufficialmente il concerto: “American Idiot”.

Le postazioni in cui ci trovavamo vengono scombussolate e mi separo dai miei amici, ma ogni posto è buono per saltare e rispondere agli incitamenti di Billie Joe, che cambia il testo della seconda strofa del brano in I’m not a part of the Don Trump agenda, e una volta concluso lo collega a “Holiday”. Il set si dimostra subito uno spettacolo pirotecnico e non solo musicale, con esplosioni e fiamme che seguono e supportano la cadenza del cantato, rendendo l’esperienza ancora più immersiva.

Viva Italia! Grazie mille! grida ripetutamente il frontman a fine brano, ed esprime a nome del gruppo l’amore per il nostro paese. Continuano con “Know Your Enemy”, e come da manuale è il momento di far salire sul palco un/una fortunato/a che canterà i versi che seguono l’assolo del brano: viene scelta una ragazza che Billie incita e coinvolge con sé sul palco, facendole cantare a squarciagola e includendola con affetto fino a fine canzone.

Il set continua con la struggente “Boulevard of Broken Dreams”, poi con “One Eyed Bastard”, il primo brano riprodotto dal loro ultimo lavoro “Saviors”. Più procede il set e più è facile riconoscere che uno dei maggiori punti di forza dal vivo di questo gruppo è la totale connessione tra la band e i seguaci: prima, durante, e dopo l’esecuzione dei brani veniamo interpellati. Billie Joe sfrutta ogni momento dove non canta per farci battere le mani, incoraggiarci a saltare, alzare le mani al cielo, e riesce sempre nell’intento. Come un vero direttore d’orchestra, coordina il pubblico, fa cantare note diverse per ogni parte dell’Arena, e riferisce la sua gratitudine.

La band propone una sfilza di brani significativi della loro gioventù, tra cui ricordiamo la controversa “Longview” e “Welcome to Paradise”, e durante la misteriosa “Hitchin’ a Ride” il palco prende fuoco con numerose colonne di fiamme. Le scalette dei Green Day non spiccano per originalità. I brani più riprodotti ormai sono sempre presenti e le scalette sono dunque in buona parte prevedibili, ma è proprio questa sera che Mike Dirnt inizia con il basso “80”, uno dei reperti più antichi proveniente dal loro secondo album “Kerplunk”.

È così che veniamo fregati, con un brano che non veniva suonato live dal 2010, e qualche pezzo più tardi viene tirato fuori il secondo coniglio dal cappello, questa volta non al completo: prima di iniziare “Dilemma”, Billie Joe fa un altro salto temporale e ammicca i primi versi di “One Of My Lies”, gemma dallo stesso album dell’altra canzone avvenuta qualche attimo prima.

Un’altra peculiarità delle performance dei Green Day la evidenzio da un punto di vista riproduttivo: le scalette, pur essendo scontate, sono stilate in maniera da bilanciare perfettamente dinamiche emotive alte e basse nel corso della durata dello spettacolo: a seguito di sezioni ricche di ribellione, dita puntate e crisi con sé stessi e con gli altri in età adolescenziale, si passa ad attimi di maturità, malinconia, memoria.

È esattamente quello che abbiamo provato questa sera: prima stiamo cantando della nostra confusione mentale con “Basket Case”, osserviamo il dirigibile gonfiabile con sopra scarabocchiato “Bad Year” che sgancia bombe su “When I Come Around”, per poi trovarci con gli occhi lucidi dopo che Billie esclama Happy Father’s day e arpeggia “Wake Me Up When September Ends”.

Concluso lo sfogo emotivo, siamo un passo più vicini alla conclusione di questo concerto e di questo Firenze Rocks. Tre plettrate e colpi di piatti uniti alla cassa dal batterista più pericoloso del mondo Tré Cool, e il pubblico perde il controllo sulla monumentale “Jesus of Suburbia”, il secondo brano più esteso dei Green Day dopo “Homecoming”, che corona quanto affermato prima. I cinque atti presenti nel lungo pezzo sono l’incarnazione dell’instabilità sentimentale provata durante il set: odio, disillusione, menefreghismo, sconforto, e speranza a colorare questo gruppo che non solo si fa ascoltare, ma ci ascolta.

Successivamente a “Bobby Sox” preceduta da un frammento di “86” e l’esplosione di coriandoli, che preavvisano la fine del set, è quasi il momento di salutarci: i membri scendono dal palco, per poi vedere Billie risalire con la chitarra acustica per l’ultimo indelebile brano di questa notte, “Good Riddance (Time of Your Life)”.

Per iniziarla nel migliore dei modi, vi è un riferimento a “At the Library”, per concludere il capitolo “perle rare”, e il frontman viene poi accompagnato da tutta Firenze che canta armoniosamente il pezzo chitarra-voce. Billie Joe viene dunque raggiunto da Mike e Tré, e la band ringrazia l’intera città per aver condiviso empatia ed energia, per aver contribuito a divertirsi e a far divertire, e per aver dimostrato coesione e resistenza.

I fuochi d’artificio sparati sopra il palco del Firenze Rocks ci indicano che lo show termina qui, è stato un bellissimo viaggio e ce ne andiamo sapendo che non passerà troppo tempo dalla prossima apparizione dei Green Day vicino casa nostra.
Articolo di Luca Colligiani
Foto di Roberto Fontana

Set list Green Day Firenze 15 giugno 2025
- American Idiot
- Holiday
- Know Your Enemy
- Boulevard of Broken Dreams
- One Eyed Bastard
- Murder City
- Longview
- Welcome to Paradise
- Hitchin’ a Ride
- 80
- Brain Stew
- St. Jimmy
- Dilemma
- 21 Guns
- Minority
- Basket Case
- When I Come Around
- Wake Me Up When September Ends
- Jesus of Suburbia
- Bobby Sox
- Good Riddance (Time of Your Life)