
Ne ho fatta di strada, stavolta, per raccontarvi quello che non è un semplice festival: è un sentimento.
Un sentimento inizialmente non semplice, ma che è valso tutti i chilometri, le code, il caldo, le barriere linguistiche e quant’altro: questa volta vi porto per tre giorni con me, dal 12 al 14 giugno, al Greenfield Festival, uno dei più importanti open – air svizzeri che si tiene annualmente nel Canton Berna. Giunto al diciannovesimo anno di attività, rinomato per la sua enfasi su generi come Rock, Metal, Punk e Hardcore, attira migliaia di fan da tutta Europa.
Tra i più estesi dell’intero Paese, Greenfield vede la sua location nientemeno che all’interno dell’aeroporto di Interlaken e il suo cuore pulsante è sempre la strepitosa line – up, che ogni anno presenta una selezione di artisti di calibro mondiale (basti pensare ai Rammstein, gli Iron Maiden, i Green Day, i The Prodigy, gli Slipknot, per citarne alcuni) e artisti emergenti, anche locali, offrendo esibizioni potenti e indimenticabili. Arrivo un giorno prima per prepararmi al meglio: sotto un sole feroce, inizio a percorrere con lo sguardo gli spazi infiniti del festival, mentre il palco principale, in fase finale di collaudo, torreggia nella splendida cornice delle Alpi svizzere. Imponente per forma e altezza, è il palco più grande sotto il quale abbia mai lavorato, talmente alto che a volte nemmeno in piedi sul gradino della transenna e sollevando alta la fotocamera sopra la testa è sufficiente a riprendere gli artisti più lontani. Talmente ampio da far apparire il gruppo più numeroso come un raduno di puffi. Non è stato assolutamente semplice domare questo mostro dal pit, anzi la prima sera sono caduta nello sconforto, per poi man mano imparare a gestirlo e interpretarlo.

Potete immaginare le mie sensazioni il giorno dopo, quando inizio a vivere a pieno questa realtà totalmente nuova: un container a uso ufficio per fotografi e stampa, due palchi che ospitano line up da urlo, un photo pit talmente grande da quasi perdermici (e nonostante tutto lo vedrò talmente affollato da sembrare piccolo). Decido di dedicarmi, salvo qualche eccezione, alla line up del palco principale: giovedì 12 giugno si aprono le danze, sotto un caldo che ha dell’infernale, con la consueta esibizione dei suonatori di corno delle Alpi.

Un pubblico tra il più colorato, variegato e rumoroso che abbia mai visto si accalca nelle pozze d’ombra attorno alla transenna: i primi artisti a darmi il benvenuto dall’alto dello Jungfrau Stage sono i Subway To Sally, gruppo metal nato in Germania nel 1992, e che presenta evidenti influenze folk e medieval rock, affiancate anche da qualche tocco gothic andando in là negli anni della loro carriera. Grazie anche agli elementi di musica classica e a strumenti insoliti come la ghironda, il violino, il flauto, si guadagnano il titolo poco comune di formazione medieval metal. Anche dal punto di vista linguistico la band è cambiata nel corso degli anni: se all’inizio la lingua principale era l’inglese, e in seguito il testo era addirittura in latino e gaelico, ora è esclusivamente in tedesco, così come l’interazione col pubblico.

13 album in studio per loro, 2 live, 3 dvd: i Subway To Sally sono molto famosi nei paesi a lingua tedesca, al di fuori dei quali si sono esibiti raramente. Come previsto, la band ha riscaldato l’aria in ogni modo possibile, nonostante il poco tempo a disposizione: per questo motivo non hanno presentato tutti i giochi pirotecnici, i cannoni sputafuoco e scintille assortite per i quali sono conosciuti, anche se spesse colonne eruttavano vapore sopra le nostre teste. Sopra la mia testa volava costantemente anche la mia macchina fotografica, mentre pregavo per una magnanima collaborazione degli artisti: un’impresa ostica ritrarli senza il loro aiuto e il loro avanzare verso il bordo del palco.

I Subway To Sally affrontano con grinta le emozioni umane e le mutevoli traiettorie della vita: speranze, sogni, paure, desideri, diventano tutti temi centrali delle loro tracce.

Incorporando anche temi riguardanti l’umanità, l’intersezione tra storia, politica, arte, le tensioni tra passato, presente e futuro, i discorsi che prendono vita nella loro musica li rendono molto più di una stereotipata band folk metal, per non parlare dell’inserimento di riferimenti mitologici provenienti da altre culture. I profondi passaggi sonori presentati nella loro scaletta sono sempre inneggianti, composti sia da riff power metal che da poetiche ballate.

Con estrema sincerità e creatività, combinano elementi melodici con risonanze più intense, dando vita a una miscela esplosiva. Accorata l’interazione col pubblico, che fa botta e risposta con loro e cantano i ritornelli rischiando un malore sotto il sole a picco: non posso però raccontarvi cosa si dicevano, perché il discorso era tutto in tedesco.

Sebbene siano in circolazione da un bel po’ di anni, la scoperta dei Subway To Sally è nuova per me, e posso dire che con loro ho iniziato più che bene la mia avventura svizzera. I saluti alla fine della performance sono calorosi, ma rapidi: il palco va preparato per la seconda band in programma, intervengono tecnici e fonici addetti a un impianto luci che potrebbe illuminare a giorno l’intero Cantone, se solo volessero.

Provatissima dalle alte temperature, osservo mentre viene preparata la scenografia essenziale e pulita degli Spiritbox, gruppo metalcore / prog metal canadese nato nel 2017 per iniziativa della vocalist Courtney LaPlante e del chitarrista Mike Stringer, entrambi ex membri degli Iwrestledabearonce. Acclamati dalla critica per la versatilità della propria musica, il loro album di debutto “Eternal Blue” del 2021 ha ottenuto da subito successo internazionale. Gli Spiritbox hanno ottenuto la prima candidatura ai Grammy Awards 2024 per il singolo “Jaded”, nella categoria miglior interpretazione metal. Stessa nomination anche per “Cellar Door” nel 2025, stessa categoria, estratto anch’esso dall’ep “The Fear Of Fear”.

La critica li ritiene da tempo pronti al successo nelle grandi arene, e Greenfield non può che essere un ottimo trampolino di lancio per loro. Nonostante l’interazione coi fan sia ridotta al minimo sindacale, lo spettacolo di questa band è accattivante, e mette sotto ai riflettori la solida musicalità dei componenti e la bravura vocale della LaPlante, oltre alla presenza scenica professionale e un’esecuzione impeccabile.
Il pubblico, che li acclama seminudo a gran voce, è entusiasta dell’energia, della set list dinamica e dell’atmosfera immersiva creata dalla produzione scenica della band, la quale fonde la complessità del Progressive Metal con melodie struggenti e voci potenti.

La capacità della band di passare senza soluzione di continuità da sonorità pesanti a eteree, ai limiti dell’onirico, rende lo spettacolo memorabile, seppur in forma ridotta da opener. Trasudano sicurezza, la LaPlante è diventata, nel tempo, una delle frontwomen più magnetiche del Metal, e la sua voce è, come prevedibile, brillante, con ruggiti imperiosi e melodie che catturano Greenfield. Una forza della natura che ci guarda dritto nella lente senza timidezza alcuna, e che domina il palco con un’energia quasi primordiale.

Il lavoro di chitarra di Mike Stringer è stata forza trainante, i suoi pesanti riff e le texture atmosferiche creano un paesaggio sonoro potente e ossessionante allo stesso tempo. La sezione ritmica fornisce sempre una una base solida e incrollabile, una testimonianza della loro abilità tecnica e potenza pura.

Lo sfondo scuro, con corvi in volo e lampi di temporale, evocano un’atmosfera più fredda sotto il sole impietoso, mentre il grande palco è immerso in un bagliore inquietante, che anticipa l’emozione e l’elettricità che stavano per scatenarsi: Thank you for having us in your beautiful country, are you happy to have us? Domanda la leader del gruppo, ma il pubblico non mastica granché l’inglese, e resta per lo più a osservarla con aria interrogativa, oppure urla sulla fiducia, senza aver ben chiaro cosa abbia detto.


Una barriera, questa della lingua, con i quali si scontreranno tutti gli artisti che non parlano tedesco, limitando molto l’interazione coi fan. Senza tanti fronzoli sono arrivati, senza tanti fronzoli se ne vanno, salutando con la mano in quella che sembra la classica finta uscita, e invece se ne vanno davvero, raccogliendo un po’ di disappunto e qualche fischio.

Stiamo preparandoci, adesso, a ricevere sul palco una vera icona della prima ondata punk, tra i più influenti della storia, uno dei gruppi più trasgressivi e provocatori della storia della musica nato a Londra nel 1975, quando molti di noi e una buona percentuale del pubblico non era nemmeno nato: parliamo dei Sex Pistols, ladies and gentlemen, con la presenza dei membri fondatori Paul Cook alla batteria, Glen Matlock, bassista e Steve Jones alla chitarra, in pista da ben 50 anni. Ciò che caratterizza i Sex Pistols e la loro musica sono un’aggressività e un’energia pretenziosamente nichilista, con richiami all’anarchia e addirittura inni anti monarchici – e in Gran Bretagna è tutto un bel dire.

Come ciliegina sulla torta, cosa ci può essere di meglio che un nome fastidioso e irriverente, inviso alle istituzioni e agli ambienti perbenisti? Descritti dalla BBC come “la sola punk rock band inglese”, vengono spesso indicati come fondatori del movimento punk britannico. Spuntano tra il pubblico creste colorate nella migliore tradizione punk, jeans e magliette strappate, giubbotti di pelle con borchie e spille, e tutti si accalcano il più possibile in transenna, pattugliata da un nutrito numero di personale di sicurezza.

Pochi minuti ancora ed ecco che i tre super eroi fanno il loro ingresso a Greenfield, accolti e osannati come pochi altri: non nascondono i segni del tempo che è passato, le mani sono coperte da macchioline tipiche dell’età, ci sono le rughe, la pancetta, i capelli grigi, ma quella scintilla negli occhi e quella sicurezza maturata in anni e anni di tour e concerti nessuno potrà mai togliergliela. Per noi che i Sex Pistols li viviamo più che altro nei video dei tempi passati e nelle canzoni su Youtube, stare sottopalco alla loro presenza ha qualcosa di sacro.

Ognuno al suo posto, con un’innata eleganza tipicamente british, impugnano gli strumenti senza neanche bisogno di guardare quello che fanno, chitarra, basso e batteria non sono altro che un prolungamento del loro corpo, compagni di vita che conoscono come il fondo delle loro tasche, mentre generano le note di “Holidays In The Sun”, opening track del loro unico album “Never Mind The Bollocks, Here’s The Sex Pistols” del 1977. Al microfono li accompagna Frank Carter, classe 1984, musicista e tatuatore inglese, membro dei gruppi Gallows, Pure Love e Frank Carter And The Rattlesnakes.

Secondo l’Indipendent, Carter è rinomato per la sua feroce presenza live e la sua immagine provocatoria.
Chi meglio di lui, quindi, potrebbe accompagnare i Sex Pistols nelle loro scorribande? Per tutto il tempo loro concesso, i Sex Pistols sono una vera bomba. Ovviamente, avere a disposizione materiale emozionante come “Bodies”, “Pretty Vacant”, “Liar” e altri aiuta, ma tutto viene arricchito da un Carter quasi elegante in giacca e pantaloni, che dimostra umiltà sincera nel suo ruolo, e che al tempo stesso è padrone assoluto del grande palco.

C’è qualcosa di magnifico, quasi commovente, nello spettacolo di fan di ogni generazione, dagli adolescenti a uomini brizzolati sulla sessantina che volteggiano in circle pit a comando, incuranti del sole che martella sul cervello. Anche se il pubblico elvetico comprende poco il British English perfetto di Carter, questo li aizza tutti: is it hot there? Are you tired? Did the sun suck your energy? I want to see the biggest circle pit Greenfield ever had.

E quasi per magia, questo accade: un circle pit infinito, che gira attorno agli stand ristorante e merch, prende vita e diventa sempre più nutrito. Are you warmed up now? Gongola il frontman, che era anche sceso tra loro a cantare e fare casino. Osservare il trio originale nella sua magnificenza significa assaporare la potenza dei riff martellanti di Jones, nella tempesta ascendente di “Anarchy In The UK”, il basso fragoroso di Matlock, dallo sguardo tutt’ora sbarazzino e vivace, che si intreccia perfettamente con la batteria di Cook.

Let me tell you one thing, esordisce Carter: if it weren’t for these 3 gentlemen onstage, most of the bands here would have never existed! Non so quanta gente abbia davvero capito la profondità del pensiero, ma fa venire la pelle d’oca nonostante i quasi 35 gradi, perché è una verità sacrosanta, questa. I Sex Pistols hanno scritto la storia. Dopo 50 anni continuano a scriverla.

Mentre il sole inizia a calare dietro le maestose Alpi svizzere, donando un leggero sollievo dalla calura, si inizia a preparare meticolosamente la scenografia del gruppo successivo, che sicuramente vince il premio del primo giorno per bellezza e teatralità. Una marea di famelici lupi mannari amanti dell’Heavy Metal si accalca in transenna, mentre un drappo nasconde la preparazione, rendendo tutti curiosi: è palpabile l’attesa, carica dell’energia oscura che solo questa band, i Powerwolf, sanno evocare. Gruppo power metal tedesco nato nel 2003 con all’attivo 18 album, è noto per le visioni originali sulla religione, che si possono notare sia nei testi che nelle copertine degli album. Contrariamente a quello che si potrebbe ipotizzare, i Powerwolf non sono assolutamente una band anticlericale: i 5 componenti hanno ognuno una propria visione spirituale diversa tra loro, il vocalist, per esempio, è stato cresciuto con un’educazione fortemente ortodossa.

Al nostro ingresso nel photo pit, veniamo caldamente raccomandati di fare attenzione alle potenti fiamme e ai giochi pirotecnici sui quali i Powerwolf non badano a spese. Sono talmente tanti e imponenti da occupare molto spazio sullo stage, costringendo gli artisti a rimanere costantemente in posizione arretrata, con un batterista completamente nascosto dietro un organo che sputerà fiamme infernali dalle sue canne; la scenografia ci trasporta tutti all’interno di una cattedrale maestosa, una delle più stupefacenti che abbia mai visto. Attila Dorn, imponente e carismatico nella sua veste da “sacerdote rock”, ha dominato la scena fin dal primo istante.

Quando le prime note dell’intro, con cori monastici e l’inquietante organo, hanno iniziato a risuonare dagli amplificatori, la folla è esplosa in un boato assordante, e poco dopo ha iniziato un crowd surfing che mi ha fatto ringraziare tutti i santi del calendario di non essere lì in mezzo. Il fumo invade il palco, poi, in un’esplosione di luci strobo e fiammate che mi hanno fatto temere l’incolumità delle macchine fotografiche, eccoli apparire, maestosi e acclamatissimi: i Powerwolf, perfetti nel loro trucco, i costumi di scena, le chitarre decorate in stile barocco. Ogni brano è accolto da cori urlati a squarciagola, mentre un’onda tellurica di headbanging scuote il terreno.

La band dimostra precisione chirurgica e una presenza scenica contagiosa, ai limiti della recita in alcuni casi.Falk Maria Schlegel, come sempre, ruba la scena con le sue movenze energiche e la sua costante interazione col pubblico – in tedesco ovviamente, quindi non chiedetemi cosa abbia detto – , muovendosi freneticamente attorno alla sua tastiera e benedicendoci con fumate di incenso.

I duelli all’ultima nota tra i due chitarristi erano affilati come rasoi, mentre il frontman Attila Dorn è stato l’indiscusso cerimoniere della serata. Si rivolge tra un brano e l’altro ai fan col suo tedesco affascinante, e anche gli altri membri si lasciano andare a lunghi e ahimè, per me incomprensibili, dialoghi coi presenti.

Lo show è stato un’esplosione di luci, fuoco, fiamme e coreografie studiate, con tutti gli artisti che si muovevano in sincronia, amplificando l’atmosfera teatrale. Verso la fine, con l’energia ancora alle stelle, dopo aver scatenato un crowdsurfing che sembrava eterno mettendo a dura prova la security, i Powerwolf ci hanno regalato alcuni dei loro classici intramontabili come la trionfale ” Werewolves Of Armenia”, che ha trasformato il campo di Greenfield illuminato ora dalla luna in un unico ululato di lupi.

Al termine dello spettacolo i fan hanno le voci rauche e le cervicali doloranti, ma anche la certezza di aver assistito a un concerto power metal alla sua ennesima potenza. I Powerwolf hanno dimostrato di essere i veri alfa, capaci di trasformare qualunque festival in una celebrazione oscura e indimenticabile.

Ci vuole del tempo e il dispiego di personale qualificato per smontare questa scenografia e preparare lo stage per i primi headliner di questa edizione del festival, è una storia interessante, e ve la racconterò nel report successivo.

Articolo e foto di Simona Isonni