
Il nuovo anno è iniziato da neanche tre mesi, e devo dire che finora vi ho un po’ coccolati, con musiche raffinate e spettacoli ad alto tasso di vitalità ed energia. Davvero pensavate che non avessi pronte le mie bolgie infernali e i miei demoni da sguinzagliarvi alle calcagna? Pensavate che mi fossi messa sulla retta via? Non scherziamo, mettetevi in tasca una boccetta di acqua santa e venite con me al The Factory di Verona, sabato 22 febbraio, dove anche il cielo, cupo e freddo, sembra pronto a scagliarci addosso chissà quali entità evocate da antiche maledizioni. La serata è prodotta da due booking del signor Metal: Erocks e Hero.Booking, e dal The Factory stesso. Non c’è ancora nessuno al mio arrivo; i fan arrivano alla spicciolata, vestiti di pelle nera, borchie, face painting, magliette inneggianti a varie band death e black metal. Mancano ancora un paio d’ore all’apertura delle porte, ma grazie alla compagnia di queste persone il tempo vola veloce, e ci ritroviamo tutti in coda per la solita trafila del tesseramento; dopo di ciò posso finalmente entrare in sala.
La prima cosa che noto oltre la transenna è il photo pit, ed è amore a prima vista per me. Il palco è allestito con cura, senza essere affollato di attrezzature delle band che si esibiranno, perché quella presente sarà condivisa da tutti, anche dagli headliner, con il solo cambio di qualche pedaliera, piatti e rullanti della batteria. Questo renderà ogni cambio set particolarmente rapido, senza perdere troppo tempo a montare o smontare accessori vari; il telo sullo sfondo, raffigurante la copertina dell’ultimo album in studio degli headliner, rimarrà alle spalle anche di tutti gli opener.

Sono da poco passate le 20 quando sul palco compaiono gli spagnoli Litost, gli unici senza un tipo qualsiasi di borchia, face painting o tatuaggi, sembrando quasi un gruppo di studenti capitati lì per lì sullo stage, gli unici che avranno qualche abbozzo di sorriso per il pubblico o che regaleranno un plettro. Un timido raggio di luce prima che l’oscurità maligna fagociti la sala, i presenti e tutto quanto attorno. Quartetto death / black metal da Valencia, sono attivi dal 2015 con due album in studio nel curriculum, e ci portano una sonorità inusuale e originale, dove i passaggi più estremi e pesanti vengono per così dire alleggeriti da sonorità di gusto orientale.

Sei i brani in scaletta, tratti dai due album, suonati senza perdere minuti preziosi; ruvidi, ma al contempo melodici, depressivi, disperati, si nutrono di emozioni negative. Brani come “Galerna”, tratto dall’ultimo album “Pathos” del 2023, presentano addirittura sognanti influenze prog nella loro anima extreme metal, dove la band sperimenta trame e accordi più leggeri e misteriosi; pensate ai Cynic, per esempio (il nostro report). “Tromba”, sempre dal secondo album, presenta un’introduzione dal medio ritmo, quasi triste, per poi cambiare tempo di punto in bianco, assumendo un ritmo talmente veloce da essere quasi imbarazzante, e lo shredding continua per una manciata infinita di secondi.

Solo il cielo (o gli inferi) sa quante note vengono suonate in quel lasso di tempo, a quella velocità. Nella sezione finale le cose rallentano, ma acquistano potenza grazie agli accordi doom, che potrebbero anche sembrare più “semplici”, ma hanno sicuramente più gusto rispetto a prima; la progressione degli accordi mi riporta un pò ai Mayhem con “Freezing Moon”.

Sul finire dell’esibizione il secondo chitarrista scende dal palco per suonare in mezzo al pubblico, illuminato da un faro a led portatile gestito da un assistente; sarebbe stato altrimenti pressoché invisibile nel buio della sala, applaudito e preso a pacche amichevoli sulle spalle da qualcuno. Se vi piacciono i Gaerea o i Harakiri For The Sky, i Litost fanno al caso vostro.

Scaduto il tempo a loro disposizione, gli artisti spagnoli cedono il posto alla band successiva, sempre proveniente dalla penisola iberica, ovvero dal Portogallo. I Litost stanno ancora finendo di portare via le loro attrezzature, che gli Irae si sono già impossessati del loro spazio, iniziando ad alzare l’asticella della malvagità black metal in maniera decisamente massiccia, con il vocalist / frontman e chitarrista Vulturius che si aggira con aria molto poco amichevole sul palco, nel suo face painting aggressivo e nelle sue borchie: le tenebre iniziano a incombere, e giurerei di sentire una corrente di aria gelida che prima non c’era. Oppure è odore di zolfo?

Gli Irae sono un trio black metal di forte stampo norvegese, nato a Lisbona nel 2002 come one-man-band, dove Hugo Leal alias Vulturius cura sia voce che strumenti. 6 gli album per questo figlio degli inferi, l’ultimo dei quali, “Nassim Na Terra Como No Inferno” rilasciato il 23 dicembre 2022 per Signal Rex. Conosciuti per il sound crudo e i testi che esplorano apocalisse e satanismo, osservano la sala con gli occhi in fiamme, promettendo di evocare le peggiori forze oscure: We are Irae from Portugal and we play Lusitanian black metal! Ringhia Vulturius in direzione delle corna alzate in sala, mentre il pubblico è già notevolmente aumentato di numero e si sgranchisce le vertebre cervicali scapocciando.

Questa è l’unica volta in cui lo sentiamo rivolgersi ai fan, dopo di che sarà un continuo sferragliare e soffiare chissà quali litanie sataniche. Spiriti antichi e maligni, energie arcaiche accese con una passione che semplicemente rifiuta di placarsi, ma anzi, sorprendentemente, va sempre a migliorare man mano che la musica avanza. Gli Irae incarnano il suono portoghese post millenario spingendolo a livelli più grandi, più squilibrati, assolutamente inquietanti e strazianti; lo spazio tra me e loro è quasi inesistente, avverto gli spostamenti d’aria e vengo quasi sfiorata dai capelli di Vulturius, mentre il bassista mancino Diego Santana, militante anche nei Corpus Christi, sforna note penetranti e vibranti con cui sfoga la propria malvagità, che porta anche dipinta addosso in forma di blasfeme croci capovolte.

In scaletta, tracce della loro mefistofelica discografia, come “Vinho De Gòlgota”, una fulminante esplosione di follia black metal di Vulturius, supportato dal fragoroso basso di Santana. La sua voce non avrebbe potuto suonare più demoniaca di così, facendoci rabbrividire e guardare alle spalle, mentre si leva dalle tenebre per ricadere in cicli penetranti, agghiaccianti prima, e in gorgoglii gutturali poi.
C’è da dormire con la luce accesa stanotte. Sempre che si riesca a dormire.

“Porco De Satanàs”, invece, già dal titolo lascia poco alla fantasia, e continua a mostrare la profonda passione del vocalist per la musica estrema e le arti oscure. Io vi avevo avvisati, di portarvi l’acqua santa.
Toni di chitarra grezzi e laceranti, cantato stridulo, misantropico, brani che attraversano le convenzioni norvegesi e svedesi: a prescindere dall’innegabile presenza scenica e cattiveria congenita, bisogna però dire che le loro canzoni sono spesso molto lunghe e basate sul minimalismo, motivo per cui metà della loro performance ci ha dato l’impressione che suonassero lo stesso brano.

Alla fine del loro live sono in tanti, nella prima fila, a sbracciarsi per avere un plettro o una set list, ma nessuno degli artisti degna i fan di uno sguardo, Vulturius continua imperterrito a riordinare i suoi cavi, immerso nel suo mondo fatto di forze oscure e malefiche.

Arriva adesso il turno degli olandesi Doodswens, formazione black metal di Eindhoven, fondata nel 2017 e caratterizzata da un suono grezzo con una propria identità, ispirata al Black Metal old school della fine degli anni 90. Il solo rituale con cui inizia la loro performance vale la pena di essere visto in prima linea. Le luci si abbassano quasi completamente, mentre in sottofondo viene trasmessa la recita dell’Ave Maria; la vocalist Inge Van Der Zon prepara con minuzia l’altare funebre al centro del palco, decorandolo con ossa e teschi animali e umani, calice, un candelabro con candele nere, un drappo con pentacolo. Alcuni teschi vengono posti anche sulla batteria e sulle casse.

Accende poi dei rametti d’incenso, facendo tossire il photo pit, con i quali va anche a cospargere le postazioni dei suoi compagni, azione questa atta a ricevere energia e forza da riversare sul pubblico. Non vola una mosca durante il rituale; osservo il volto di Inge, illuminato solo dai rametti che bruciano nell’oscurità, delicato nonostante i rivoli di simil-sangue rappreso, ed è quando ci mostra il bianco degli occhi in una smorfia demoniaca che si rivela la vera natura di questa band.

Guardando Inge nella sua essenza maligna, per una frazione di secondo mi ricorda il Wendigo, leggendaria figura demoniaca della mitologia dei nativi americani algonchini che pratica il cannibalismo; e lei, col volto così pieno di sangue, anche attorno alla labbra, sembra proprio aver morso carne umana da poco. Oh cielo, il Wendigo è due passi da me, penso mentre i suoi capelli prendono fuoco passando vicino alle candele, prontamente spenti da uno dei suoi compagni. Va bene lo stesso! le gridano dalla sala, ma né lei né nessuno della band reagisce.

La vocalist, scopro, è anche la batterista del gruppo; rimarrà dunque seminascosta dietro i piatti per tutto il tempo, ma è attorno a lei che si concentra il live di questa band. I Doodswens vogliono chiaramente lasciare il segno, e lo fanno, eccome se lo fanno, soprattutto quando la prima canzone esplode in una raffica di blast beats. Inge flagella i tamburi come posseduta, o come se essa stessa fosse un demone urlante dal profondo degli abissi. De profundis clamo ad te.

Immersa nella luce infernale, “benedetta” dagli dei oscuri, la sua voce è inquietante, triste e sofferente allo stesso tempo, e le fiammelle delle candele oscillano sotto la raffica di bpm e le urla furenti. Questa band suona il suo Black Metal senza alcun tipo di interazione con il pubblico, con basso e chitarra quasi sempre fermi sullo stage, quindi anche qua l’intera performance sembra un’unica lunga canzone, interrotta brevemente dalla rottura di una corda del chitarrista, che risolve andando nel backstage e tornando direttamente con una chitarra diversa.

Questa è una sonorità che viene vissuta meglio dal vivo, poiché trasmette proprio quel senso di disperata oscurità nel quale affogare lentamente: qualche vibrazione scandinava mescolata con un po’ di tipici timbri black metal olandesi, più dissonanti. Un’altra prova che la scena black metal è davvero una grande fucina per musica straordinaria, e i Doodswens raccolgono il giusto plauso del pubblico.
Giustamente più lungo, ora, il cambio set, e siamo giunti al momento per il quale tutti siamo qua, in questa notte inquieta. Si pulisce il pavimento dai residui di incenso (compresa una ciocca di capelli caduti alla povera Inge), si aggiungono una quantità di piatti alla batteria, si verificano microfoni e chitarre.
In sottofondo, “Back In Black” degli Ac/Dc va man mano trasformandosi in un lungo, lugubre canto gregoriano, mentre la fog machine produce fumo non stop, immergendo la sala e la sottoscritta in una nebbia di latte, che con le luci annacquate rende davvero l’idea di stare in una cattedrale, magari sconsacrata, magari infestata. I fan iniziano a rumoreggiare: basta musica di chiesa.

Manca solo un carro funebre parcheggiato all’ingresso e ci siamo tutti; ore 23 spaccate, fanno ingresso i Marduk, signori svedesi del Black Metal e del regno dei morti, con 23 album all’attivo, dei quali l’ultimo, rappresentato dal telo col tristo mietitore sullo sfondo, “Memento Mori”, pubblicato il 1 settembre 2023 via Century Media Records e dal quale prende il nome il loro tour, oggi alla seconda e ultima data italiana.

Marduk, antica divinità mesopotamica a capo degli dei; non siamo certo a lezione di mitologia, anche se questa band, che ha guadagnato uno status leggendario nel mondo del Metal, nel mito potrebbe rientrarci tranquillamente. Con una carriera di oltre tre decenni e calcando tutti i palchi del pianeta che valgono la pena di essere calcati, la band è nata nel 1990 con un obiettivo ben preciso: essere il gruppo metal più blasfemo di sempre. Questa notte però sono arrivati a Verona con un intento diverso, ovvero quello di devastare il circondario con il loro assalto estremo.

Nessuno meglio di Morgan Hakansson, chitarrista e membro fondatore, potrebbe dare una colonna sonora a sorella Morte; i Marduk sono intenzionati a radere al suolo il locale e a scavarci quanto prima la fossa, entrano con piglio deciso e senza indugio alcuno, ci mancherebbe. La mia posizione nel pit mi permette di viverli, di respirarli persino, a una distanza tale che potrei farli inciampare se allungassi la macchina fotografica. E non so quale vetusta maledizione potrebbero tirarmi, se succedesse, rabbrividisco tra me. Imponenti per esperienza e presenza fisica, quando il vocalist Mortuus allunga il piede per appoggiarlo sulla cassa davanti a me, dà più l’impressione di volermi spiaccicare come il mozzicone di una sigaretta.

Marduk! Marduk! Marduk! Ruggiscono i fan in ammirazione, e quelli che prima stavano nelle retrovie o gironzolavano in area merch ora sono saldamente in prima linea e al centro, urlando in segno di ammirazione per i loro eroi. Mortuus non dice nulla: non ne ha bisogno. Con la sua presenza imponente, può dire con uno sguardo più di quanto altri possano dire in un monologo di cinque minuti. I Marduk comandano lo stage energicamente, con Mortuus in litigio continuo con l’asta del microfono, e mettendo in scena uno spettacolo nel vero senso della parola: un ottimo esempio di macchina da guerra musicale ben collaudata e a tenuta stagna, praticamente immune a segni di invecchiamento o rallentamento.

La loro set list include classici senza tempo, come “The Hangman Of Prague”, “Steel Inferno”, dall’album “Plague Angel” pubblicato nel 2004 per Regain Records: alcuni potrebbero definire la voce di Mortuus “debole”, ma per me le sue grida rauche aggiungono un elemento umano alla musica che potrebbe facilmente diventare troppo meccanizzata e raffinata sotto il microscopio della produzione digitale. In realtà, questo non è un grosso problema per i Marduk, la cui lunga storia di lavoro live ha dato alle loro canzoni più veloci ed estreme un senso di vita fuori dagli schemi, che nessuna band, solo in studio, può sperare di duplicare.

Loro suonano e scrivono come se sapessero di doverlo dimostrare on the road, e poi fanno esattamente questo. A testa bassa, continuano a caricare senza pietà attraverso la scaletta progettata per la massima carneficina e distruzione: molti i brani del loro ultimo album, come “Blood Of The Funeral”, “Marching Bones”, momento per il batterista di sfoggiare la sua tecnica chirurgica, e “Shovel Beats Sceptre” , traccia particolarmente sontuosa e tutto sommato profonda nel significato: Your days are numbered / no matter what you’ve been told / stop now and consider / that you’ve never been this old.

Il modo in cui riescono a mantenere questa intensità, questa ferocia, questa rabbia immonda è davvero fuori dal comune, e non è qualcosa che si possa adeguatamente catturare con un cellulare e nemmeno con la macchina fotografica: loro no, vanno vissuti live, sperimentati in carne e ossa. Dopo più di un’ora la band scompare in una marcia funebre, il pubblico non è contento per niente, ed ecco ritornare i cori Marduk! Marduk!

Alla fine ritornano, e Mortuus manda in delirio la folla già infuocata con il beneficio del dubbio, la possibilità che sia davvero finita così, a meno che non sia soddisfatto dell’energia trasmessagli dai fan. Fortunatamente queste creature dell’oscurità sono magnanime, e ai fan su di giro viene offerta “The Blonde Beast”, fantastico brano del 2015 dal suono decisamente diverso da tutti gli altri brani, poiché viene suonato in terzine anziché nelle solite note da un quarto, col risultato che la canzone risulta più “allegra” e fa partire immediato l’headbangig selvaggio. Parlare di ritmo allegro e Marduk nella stessa discussione è strano, ma in qualche modo lo fanno funzionare, e anche bene.

Questa è veramente la fine, scordatevi lanci di plettro o bacchette, il premio per la prima fila è una stretta di mano rapida da parte di Mortuus, e le tenebre possono iniziare a diradarsi ormai. Il termine “leggendario” viene utilizzato troppo spesso, oggi, tuttavia è più che adeguato per i Marduk, avendo guadagnato questo status offrendo innumerevoli performance strepitose come quelle di stasera. Una performance a cui tutti i fan del Metal estremo devono assistere almeno una volta nella vita. Resta da vedere se in futuro si parlerà dei Marduk allo stesso modo delle divinità mesopotamiche, anche se occuperanno un posto speciale ed esclusivo nel cuore e nella memoria di molti fan del Metal.
Articolo e foto di Simona Isonni

Set list Marduk Verona 22 febbraio 2025
- The Levelling Dust
- Warschau
- Shovel Beats Sceptre
- Steel Inferno
- Marching Bones
- Blood Of The Funeral
- Cold Mouth Prayer
- The Hangman Of Prague
- Perish In Flames
- Throne Of Rats
- Womb Of Perishableness
- Blutrache
- The Blond Beast