
21 giugno. Roma, come mezza Italia, sfrigola come una braciola dimenticata sulla brace. Il sole picchia, l’asfalto cuoce, e io – spirito temerario e poco incline al buon senso – mi vesto tutto di nero. Sì, nero. Anche perché sto andando a un compleanno e alle feste è sempre gradito l’abito scuro. Che sono quelle facce scettiche? Non sto mica andando a uno di quei compleanni fiacchi con la gente impalata, il bicchiere in mano con dentro una birra calda e triste. No, noi di Rock Nation abbiamo altri standard. Noi le feste le prendiamo sul serio. Soprattutto quando si tratta di compleanni storici come quello di Radio Rock, che spegne 41 candeline (qui trovate anche il nostro articolo sulla mostra celebrativa dei 40 anni). E allora come si festeggia una radio libera, irriverente e orgogliosamente allergica al mainstream? Ma con la musica dal vivo, ovviamente! Questa sera al Largo Venue suonano i Bobby Joe Long’s Friendship Party (la nostra recensione dell’album), preceduti da una band che già dal nome promette romanità come The Pischellis.




Si entra. Il locale comincia a riempirsi piano piano, gente che arriva e birre che girano. Io mi infilo nel pit, pronto a farmi travolgere dallo spirito festaiolo. Salgono The Pischellis e partono subito a razzo, niente introduzioni melense, niente chiacchiere. Cover rock rilette in romanesco, tra l’irriverente e il surreale. Divertenti, scanzonati, ma attenzione: sotto la superficie ironica, c’è gente che sa suonare. E bene. Un set che fa ridere, ballare e sudare – sapete quando si dice il pubblico è caldo, e stavolta non è una metafora – dopo mezz’ora The Pischellis salutano tra applausi sinceri e meritati.

Poi arriva il buio. Mi giro. Largo Venue è zeppo fino all’orlo. Come si dice da queste parti, “pieno come ‘n ovo”. E il dialetto romano sarà protagonista indiscusso della serata, ma non aspettatevi gli stornelli da trattoria trasteverina: qui si pesta duro. Salgono sul palco i Bobby Joe Long’s Friendship Party – da qui in avanti BJLFP – tutti mascherati come una compagnia di teatro post-apocalittico, tranne Henry Bowers, il cantante, volto scoperto e presenza scenica da vendere. Partono con “Sesso coi morti in una bara piena de topi” (già il titolo è un manifesto) e io capisco subito che dal vivo questi non scherzano. Hanno un’attitudine metal inaspettata e un suono così potente che ti entra nelle ossa. Prima ero cotto di loro, ma con tutti questi watt è scattato l’amore vero. Uno di quelli tossici e bellissimi, che ti lasciano le orecchie a pezzi e l’anima felice.

Il concerto va avanti e il pubblico è una creatura selvaggia: canta, poga, si contorce come un organismo unico sotto le luci del Largo Venue. Sul palco, i musicisti sembrano posseduti. Non da uno spirito qualsiasi, ma da quello urbano delle periferie romane, magari fuoriuscito da una delle tante crepe della Prenestina highway. Si muovono come sciamani indemoniati, in totale simbiosi con il suono.

Bowers invece è lì, fermo. Fiero. Guarda da dietro gli occhiali scuri il pubblico davanti a sé, e non ha bisogno di muoversi troppo. È come il sommo sacerdote del rito celebrato stasera, che osserva i suoi accoliti immersi nelle distorsioni liturgiche che fuoriescono dall’impianto.

Il set scorre come un flusso febbrile: “Bela Lugosi Tanz”, “Mortacci loro”, “Laura Palmer”, “Hippiepazzi!” … titoli che sono già poesie suburbane, cartoline torbide dall’altroquando. In mezzo a tutto questo, il pogo continua, le urla si alzano, i corpi sbattono. Perché non si può restare fermi a un concerto dei BJLFP. È impossibile. È come stare davanti a un treno in corsa e non fare almeno un passo indietro o magari avanti, per i più folli. Qui o si fanno i BJLFP, o si muore. Punto.

I loro testi, declamati da Bowers in romano, sono un labirinto: ci trovi serial killer, filosofia da marciapiede, schegge di politica e spaccati deformati di una Roma che puzza di traffico, piscio agli angoli delle strade e romanticismo. Sono geniali. Punto. Attualmente, a mio avviso e senza giri di parole, una delle band più lucidamente folli e brillanti del panorama italiano.

Il tempo è evaporato. Un’ora e mezza di spettacolo, un viaggio che attraversa buona parte della loro discografia. E poi arriva lui, il pezzo che aspettavo: “Er the conjuring”. Penultimo brano di questa scaletta. E quando pensi che sia finita, Bowers e soci regalano un vero bis, non una di quelle mosse da copione. Ripropongono “Bela Lugosi Tanz” che, come un detonatore, fa esplodere nuovamente la folla.

Il concerto è finito: andate in pace. Mi faccio largo tra corpi sudati, occhi lucidi, sorrisi sbronzi e volti sorridenti. È stata una dannatissima festa rock. E solo Radio Rock, con il suo cuore anarchico e il suo spirito sempreverde, poteva organizzare un casino così dannatamente bello. Una volta ho letto una di quelle frasette da bacheca Facebook: Non si è mai troppo vecchi per diventare giovani. Frasi che la gente spesso si appiccica quando i 50 si avvicinano, come un autovelox imprevisto sull’autostrada mentre sei troppo oltre il limite. Forse, però, è vero il contrario: non si diventa mai vecchi se si resta giovani dentro. E guardando i 41 anni di questa radio, mi viene da pensare che sì, è esattamente così.
Articolo e foto di Daniele Bianchini

Set list Bobby Joe Long’s Friendship Party live Roma 24 giugno 2025
- Sesso coi morti in una bara piena di topi
- Lawrence d’Arabia
- Bundytismo
- Bela Lugosi Tanz
- Obbligo prassi e filosofia
- C’è da dire
- Luciano Serra pilota
- Mortacci loro
- Giovan Maria Catalan Belmonte
- Laura Palmer
- Magno bevo e tifo Roma
- Core de tenebra
- Hippiepazzi!
- LE chiavi de San Pietro
- Happy Birthday
- Antico punk inglese
- Allarme pesci palla
- Er the Conjuring
- Rebibbia