Ha ragione l’amico Giuliano: Toni Bruna è uno dei “best kept secrets” del cantautorato italiano. Un segreto che relativamente pochi conoscono e che meriterebbe una visibilità ben maggiore nel panorama a tratti asfittico della canzone d’autore. Per questo, alla prima occasione di vederlo dal vivo, sono andato ad ascoltarlo al Circolo Arci Oca Morta di Parma, la sera del 24 ottobre.
Immaginate sette giri intorno a Piazza Matteotti alla vana ricerca di un parcheggio. Immaginate un cancello discreto in Via della Costituente, ingresso dell’Oca Morta, un luogo spartano ma accogliente come i veri circoli Arci devono essere. Immaginate un gruppetto di persone sedute a chiacchierare, una sala illuminata da una fioca luce rossa e una sedia pronta ad accogliere l’artista che stasera si esibirà. Mettete anche in conto i sette Euro con i quali riuscirete a mangiare una focaccia che vale una cena: d’altronde, in Emilia queste cose sono possibili.
Quando ci si reca a un concerto, non si dovrebbero coltivare aspettative: meglio farsi sorprendere da ciò che deve arrivare. Stasera però mi è difficile, perché da mesi attendo di poter ascoltare Toni Bruna dal vivo. Quasi tre ore di automobile per assistere al concerto di un cantautore possono sembrare follia, ma nella mia testa il viaggio ha senso. Galeotto fu Giuliano, appunto, eroico difensore dell’ultimo negozio di dischi rimasto in vita nella mia provincia, la periferia dell’impero chiamata Trento. Una sera sul tardi, l’amico mi inviò un link: “Conosci Toni Bruna?” No, non lo conoscevo. Ascoltai “Fogo Nero”, l’album che mi aveva proposto, con il risultato che quaranta minuti dopo ero incollato alla sedia e faticavo ad alzarmi. Accade sempre quando ascolto qualcosa che mi attraversa, narrandomi storie profondamente mie, anche se nate dalla penna e dalla voce altrui. Quell’ascolto notturno resta alla base della mia decisione di recarmi a Parma per il concerto, ma prima di parlarne conviene che cerchi di descrivere il repertorio dell’autore triestino, se mai è possibile.

Per chi avesse necessità di riferirsi a qualcosa di noto: mescolate “Nebraska” di Bruce Springsteen a “Pink Moon” di Nick Drake, e avrete una vaga idea di cosa vi attende. La mescolanza, però, dev’essere vigorosa, perché il prodotto finale è assai diverso dagli ingredienti di partenza, grazie al fatto che alcuni tratti della musica di Bruna sono così caratteristici da diventare imprescindibili.
La lingua, innanzitutto: Toni Bruna canta solo in dialetto triestino. Alcuni cantautori considerano il dialetto un’espressione popolaresca, e in alcuni casi hanno pure ragione. Altri casi però fanno eccezione: il dialetto è una necessità che si realizza quando diventa l’unico idioma possibile per esprimere i propri pensieri e sentimenti. Se il dialetto è lingua madre, è per definizione la lingua più primigenia. In tempi recenti, artisti come Elli De Mon hanno ottenuto eccellenti risultati partendo da questo assunto, e ha compiuto una scelta simile anche Daniela Pes, la cui “lingua ignota” prende l’abbrivio dal gallurese arcaico per approdare altrove. Nel caso di Toni Bruna, mi sento privilegiato: il triestino è un dialetto della lingua veneta, abbastanza simile a quello con il quale sono cresciuto. Al netto di alcune espressioni, riesco a capire buona parte di ciò che viene cantato.
Qui si manifesta il secondo tratto caratteristico: i testi. L’aggettivo che mi sembra meglio descrivere le liriche dell’artista è “scarne”. Bruna usa poche parole, talvolta pochissime, per evocare visioni che affondano le radici nel passato, fino nell’infanzia. I temi universali paiono distanti, sostituiti da microstorie che prendono il via dalle foglie di un albero di fico, dai tavoli di una vecchia trattoria di Opicina, dalla visione dei piedi e delle scarpe di un uomo, ma si cristallizzano così bene da risultare familiari.

Le parole, di per sé, non svelano tutto: è il loro farsi voce che le scolpisce, e questo è il terzo tratto caratteristico. Bruna canta con un timbro particolarissimo, che tocca il registro acuto senza mai suonare acido o metallico. È una voce di vento, che taglia come la bora che frusta Trieste a cavallo tra l’autunno e la primavera. È una bora chiara, però, non una bora scura: a differenza di quest’ultima, che si manifesta con il brutto tempo e raffiche di vento gelido e fortissimo, la prima porta spesso con sé un cielo terso e raramente raggiunge velocità anemometriche insopportabili, pure rimanendo un vento ghiacciato. I triestini sanno che non c’è modo di sfuggirle: è come non avere i vestiti, dicono. E, nel caso della bora scura, come non avere la pelle. Le canzoni di Toni Bruna sono così: ci attraversano quasi senza che ce ne accorgiamo. Sono piccole miniature disarmanti, dietro le quali si intuisce talvolta un peso smisurato, ma che hanno un effetto purificatore.
Dal vivo, gli arrangiamenti sono ancora più scarni che su disco, se mai è possibile. Dopo l’esordio di “Formigole” (2011), sono serviti dieci anni all’artista per produrre “Fogo nero” (2021). Non è esattamente una produzione cospicua, ed è giusto che sia così: un decennio è servito per prosciugare arrangiamenti già pieni di silenzi, lavorando per sottrazione. In “Fogo Nero”, oltre alla chitarra e alla voce, sono presenti un organetto e pochissimi altri strumenti che appaiono solo occasionalmente. Dal vivo, anche meno: solo la chitarra e la voce, senza effetti di luce, senza loop, senza niente. Il concerto, se non fosse per la luce rossa fissa sulla scena, è in bianco e nero, e svela una nudità stilistica che evoca la ruvida e straziante bellezza del Carso e dei suoi silenzi. Il vero mistero delle canzoni di Toni Bruna sta proprio nei silenzi che racchiudono, nella sua capacità di percuotere le corde per un buon minuto senza mai spostare le dita, picchiando su un unico accordo sempre identico a se stesso ma capace, chissà come, di suscitare emozioni ancestrali. Inoltre, sta nel fatto che non finiscono mai, se non perché “devono” finire. Si potrebbero dilatare all’infinito, e resterebbero identiche a se stesse.

Non si può dire che i brani siano gioiosi e solari, al netto delle rade pennellate ironiche che talvolta si insinuano nei testi, e ci si potrebbe aspettare che un concerto basato su un repertorio simile diventi pesante. Non è affatto così, perché dal vivo ci sono i brani e ciò che succede tra un brano e l’altro: quello è il momento in cui la tensione si stempera, grazie alla comunicazione diretta dell’artista con il pubblico fatta di aneddoti, battute, dialoghi e soprattutto risate. Un atteggiamento, questo, che ricorda molto quello del compianto Paolo Benvegnù, che per sua stessa ammissione infarciva di momenti comicamente surreali i suoi spettacoli “per non restarci sotto”.
Una delle cose più significative del concerto è stato il mutare dell’atteggiamento di una parte del pubblico nel corso delle esecuzioni. Durante i primi brani, dalle retrovie giungeva il vociare poco rispettoso di alcuni avventori passati al circolo per bersi un bicchiere di Bonarda. È un fenomeno che si riscontra spesso, e che per forza di cose infastidisce sia gli artisti che i presenti che vorrebbero ascoltare. Dopo il terzo brano, però, il brusio è progressivamente scemato, trasformandosi in un silenzio partecipe: durante le esecuzioni, non volava una mosca. Non è un fatto scontato e non è da tutti riuscirci, ma è il segno tangibile che chiunque, a un certo punto, deve arrendersi al fatto che sulla sedia inondata di luce rossa stia accadendo qualcosa che lo riguarda.
Come lo riguardi, rimane un mistero, perché Toni Bruna canta di sé, delle proprie esperienze e spesso dei propri ricordi e fantasmi. Nei brani sfilano personaggi sconosciuti, non si sa quanto reali, trasfigurati o immaginari. Le vecchie istriane di “Baiamonti”, un Cristo di gesso disciolto in un secchio d’acqua, ombre prive di volto: il concerto è un piccolo diorama in movimento, all’interno del quale si svolge il teatro minimo delle nostre esistenze. Nella prima parte vengono privilegiati i brani più datati, tratti principalmente da “Formigole”, mentre la seconda propone buona parte delle canzoni di “Fogo Nero”. È in queste che si svela uno dei tratti più caratteristici dell’opera dell’artista: il confine. Confine inteso come linea immaginaria che separa due territori (l’artista è figlio di esuli istriani e ha passato buona parte della vita in un luogo che è difficile definire italiano o sloveno, per quanto le culture si sovrappongono), ma anche come metafora: luce/ombra, serenità/tormento, quiete/tumulto. È un confine che separa luoghi indefiniti, esteriori e interiori, come nel brano che dà il titolo all’album: “È là / È là che vado a cercarmi / E quel restare zitti mi appende al muro / Ma in qualche modo respiro / In qualche modo.” (Testo tradotto.) Oppure, dilaniante in “Via dei Giardini”: “E là tu vedrai / Come un poco al giorno ci fanno fuori / Puoi aspettare domani / Non ammazzarti ancora.” (Testo tradotto)
È in questo gioco di dentro/fuori che risiede la magia di uno dei concerti più intensi e puri a cui abbia assistito da molto tempo. La siderale distanza di Toni Bruna da qualsiasi atteggiamento snob nei confronti del pubblico (che spesso rivela un’interazione fasulla, quasi l’artista si ponesse sul pulpito e avesse qualcosa da insegnare) trasforma il set in un momento di verità, che purtroppo non arriva all’ora e mezza. Varrebbe la pena di averne tanti, artisti così, e soprattutto che ci fossero i luoghi adatti per farli esibire. Mentre la musica mi scorre addosso, il mio pensiero va al Folkstudio del 1962, quando un ventunenne e sconosciuto Bob Dylan suonò davanti a una quindicina di persone: chissà quale aria attraversò il locale trasteverino quella sera, magari una bora chiara temporaneamente migrata a Roma? Mi piace pensare di sì.
La certezza è che fino a che esisteranno autori (e non solo cantautori, che sono una cosa diversa) in grado di comunicare in maniera così limpida e al contempo viscerale il proprio vissuto e il proprio sentire, ci sarà speranza. La stessa che mi ha preso quando, al momento del congedo, ho fugacemente abbracciato Toni mentre mi diceva: “Sono stato contento di averti qui.” Anch’io, di esserci stato. Come raccontavo a un’amica, quella notte mi sono coricato con la testa piena di pensieri liberi e il cuore leggero, e non mi capitava da tempo. La bora, quella chiara, ti straccia le vesti e ti attraversa le ossa, scuotendoti di brividi, ma ti purifica.
Articolo e foto di Marco Olivotto
Set list Toni Bruna Parma 24 ottobre 2025
- Baiamonti
- Cristo de geso
- Gente che no ghe frega de gnente
- Cavallo da corsa
- La borghesia / La flaida
- Un posto
- Serbitoli
- Ombre cinesi
- Libera tuti
- Fogo nero
- Iazo
- La quela
- Free time
- Coi corvi
- Pele e ossi
- Via dei Giardini
- Santantonio
