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Vox Nation #06

L’intelligenza artificiale nella musica

Benvenuti a VoxNation, la voce della musica indipendente di RockNation. Questo mese affrontiamo un tema che sta riscrivendo le regole del gioco: l’intelligenza artificiale nella musica. Niente allarmismi da bar: qui analizziamo i fatti, con date, dati e responsabilità precise.

Partiamo da un punto fermo: per secoli la musica è stata corpo e sudore. Fino all’invenzione della registrazione, ciò che non suonavi perfetto svaniva nell’aria. La registrazione su nastro magnetico ha permesso di catturare il suono e, dagli anni ’50, di tagliare e incollare sezioni. Con l’arrivo del multitraccia di Les Paul, la musica diventa manipolabile: nascono i primi capolavori “da studio”, come “Pet Sounds” dei Beach Boys e “Sgt. Pepper” dei Beatles. Qui comincia la trasformazione della musica in prodotto tecnico. Negli anni ’70 entrano sintetizzatori analogici e drum machine: Moog, ARP, Roland TR-808. La polemica di allora è identica a quella di oggi: “uccidono la musica suonata”. In realtà hanno aperto interi mondi: krautrock, electro, house, techno, hip hop. Senza tecnologia non avremmo né Kraftwerk né Grandmaster Flash.

Il salto successivo è Auto-Tune. Antares lo rilascia nel 1997, ideato da Andy Hildebrand, ingegnere geofisico che lavorava sull’elaborazione dei segnali sismici. Il suo scopo era correggere impercettibili sbavature vocali senza che l’ascoltatore se ne accorgesse. L’anno dopo Cher pubblica “Believe” e usa Auto-Tune in modo dichiarato, trasformandolo in effetto estetico. Non più correzione invisibile, ma scelta artistica. La diffusione è capillare: T-Pain ne fa un marchio di fabbrica, Kanye West ci costruisce un disco come “808s & Heartbreak”. La tecnica diventa estetica, l’effetto diventa genere. A fine anni Duemila persino artisti rock come Bon Iver lo adottano per esplorare nuove timbriche.

La reazione non tarda: nel 2009 Jay-Z pubblica “Death of Auto-Tune” e lo definisce la morte dell’hip hop autentico. Critici e giornalisti denunciano l’appiattimento delle voci e la “plasticizzazione” del pop. Per altri, Auto-Tune è solo uno strumento: dipende da come lo usi. La discussione diventa politica culturale: perfezione contro imperfezione, umano contro artificiale.

Oggi la posta è più alta. L’AI generativa non si limita a correggere: compone. “Heart on My Sleeve”, il falso duetto tra Drake e The Weeknd creato con AI, supera milioni di stream prima di essere rimosso. Non c’è plagio diretto: c’è imitazione di stile e voce. Qui si apre un vuoto giuridico: diritto d’autore, diritto all’immagine vocale, responsabilità delle piattaforme. È un tema centrale per le major perché, se non regolato, può erodere valore all’intero catalogo.

Le major non stanno a guardare: Universal, Sony e Warner hanno citato in giudizio le startup Suno e Udio per addestramento su cataloghi protetti senza licenza. Le aziende di AI rivendicano il fair use: la sentenza deciderà se usare brani per allenare un modello è legittimo. Una causa che può ridefinire la proprietà intellettuale musicale. Negli Stati Uniti il dibattito è acceso anche sul diritto alla voce: il Tennessee ha approvato l’“ELVIS Act” per vietare clonazioni vocali non autorizzate.

Ma l’AI è davvero la fine del musicista? In parte no: chi ha gusto, orecchio e visione continua a fare la differenza. Ma il rischio è un mercato sommerso da contenuti generici, ottimizzati per triggerare gli algoritmi di streaming: brani brevi, ripetibili, prodotti in serie. È già successo con le playlist di “functional music”: sleep, relax, focus. Molte di queste tracce sono anonime e vengono prodotte in massa per occupare le playlist proprietarie. L’AI moltiplica questa capacità industriale.

Qui entra in scena l’economia. Spotify nel 2024 introduce la soglia minima di 1000 stream annui per traccia per maturare royalties, per combattere lo “spam sonoro” di chi carica migliaia di brani generati. Deezer dichiara che il 70% degli stream AI è fraudolento e introduce strumenti di riconoscimento per bloccarli. In gioco ci sono milioni di euro di revenue: più tracce significa più ascolti, ma anche più frammentazione delle royalties. L’IFPI stima che le frodi da streaming pesino fino al 3% dei ricavi globali, sottraendo risorse agli artisti legittimi.

Gli autori e gli editori europei chiedono tre cose: trasparenza sull’addestramento, consenso esplicito e remunerazione. Lo studio GEMA/SACEM del 2023 mostra che oltre l’80% dei musicisti accetterebbe l’uso delle proprie opere per AI solo con compenso tracciato. La Svezia ha lanciato la prima licenza AI collettiva con STIM: i dataset vengono registrati e le royalties distribuite in base all’uso. Questo modello evita il blocco totale ma tutela i creatori. Il punto non è demonizzare l’AI ma stabilire regole: etichettatura obbligatoria per i brani generati, remunerazione per chi fornisce il materiale di training, algoritmi che premino qualità e non quantità. Serve anche alfabetizzazione del pubblico: capire cosa stiamo ascoltando e scegliere consapevolmente. Altrimenti rischiamo un’industria che produce musica come si produce packaging.

Vi lascio con una provocazione: se domani aveste due versioni dello stesso brano, una cantata da un’artista che amate, l’altra generata e indistinguibile, quale scegliereste? La risposta a questa domanda, non le cause in tribunale, deciderà il futuro della musica.

Podcast di Silvia Ravenda
Musica di Minsmà

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