Il 25 aprile è uscito per la Dene Jesmond Records “Loose Talk Instrumental” seguendo dopo circa un mese “Loose Talk”, l’album di inediti di Bryan Ferry e Amelia Barratt. “Loose Talk” ha l’eleganza di Bryan Ferry. Ha la sua attitudine, la sua entrata. Entra dalla porta come farebbe lui. Sì, ha anche il suo ciuffo, questo disco. Quando esordisce alla voce narrante Amelia Barratt egli è comunque sempre lì a tinteggiare il fondo della stanza, dargli cupezza, fotografare soffitte piene di macchie umide e pareti verdi scuro. Credo sia un interessante passaggio nella carriera di un artista: mostrarsi sempre più compositore innanzitutto che esecutore o performer; spaziare quindi in un ampio strumentale che fa da righe sopra le quali la Barratt si siede, che sia in un bar o sul fondo di un letto – a seconda di ciò che dipinge Ferry – per scrivere e narrare.
Ho visto il mio riflesso nello specchio di una moto / E ho accelerato /Siamo più liberi sotto una strada che su di essa / Dico al ricevitore / E riattacco.
Noi italiani conosciamo bene questa formula, quella della musica spoken, di tradizione soprattutto emiliano-romagnola: dai CCCP ai Massimo Volume passando per gli Offlaga Disco Pax. Siamo però più duri, ci andiamo dentro di chitarre e suoni ruvidi provenienti dall’ormai leggendario indie di nascita anni ‘90, quello dal sapore di disagio provinciale proveniente dal desolato entro terra. Ferry invece non si scompone, non suda dentro magliette, resta pettinato: mantiene la sua eleganza in questa sorta di soundtrack da hotel o motel, con un che di cromia lynchiana. Drum machine minimali, pianoforte e sintetizzatori dosati a gocce ma con anche accenni orchestrali come in “Cowboy Hat”. Personalmente amo moltissimo il brano “Orchestra”; Ferry ricompare come cantante, ma sempre fuori fuoco: accompagna Amelia Barratt con dei falsetti lontani; una scelta molto molto elegante.
Frasi che mi passano sopra / Sembrano farlo / Quando meno le desidero / In un auditorium affollato una voce dice / Senza i tuoi strumenti / Sei reso favoloso / Il sipario è appeso / Più avvincente del palcoscenico / Il direttore d’orchestra è bravo, credo / I musicisti vengono fatti uscire in anticipo per parlare / Recitare con naturalezza, vagabondare.
Questa per me è poesia. Sono lì. Ci credo mentre la leggo. Ci credo quando la ascolto. Bryan Ferry è le righe su cui la Barratt scrive e io divento una telecamera diretta dalla colonna sonora. Vedo ciò che dicono e suonano. Sento quelle rosse poltrone macchiate e ammuffite sulle dita. Mi pulisco via la polvere strofinandomi sui pantaloni. Anche in “Landscape” sentiamo canticchiare un Ferry lontano, come fosse nell’altra stanza d’albergo: c’è un che di low-fi; immaginando il processo creativo alcuni brani sembrano dei demo che sono stati resi da ufficiosi a ufficiali con una finale funzione differente: non divenire canzoni ma stanze, restando così come sono: non troppo a fuoco e splendide per questo. Ovviamente parlo della versione non instrumental. Credo che la versione instrumental sia venuta fuori per riportare Ferry perfettamente al centro e apprezzarne maggiormente le composizioni di questo suo primo esperimento sul genere.

Un disco da ascoltare in macchina, di notte, sui viali, in città. Da soli. Qui c’è un viaggio per cercare pace nella notte. O per consegnarsi a essa. Contiene dei racconti autoconclusivi; mi ricorda il disco/concept romanzo di Bowie, “Outside”: “Outside” sta a un romanzo come “Loose Talk” a una raccolta di racconti di strada. Sono due dischi da libreria.
Due poliziotti piegano le briglie / in un box aperto / C’è un luna park in corso / Chiedo / Si può piegare una briglia? / Appesa, sì / Ma vorresti conservare i fili / I pezzi a parte / Di solito c’è una stalliera per questo / La polizia potrebbe non avere esperienza / Con le briglie che si aggrovigliano / I poliziotti indossano pantaloni neri da jodhurs.
Uno dei brani che differisce di più come atmosfere è “Pictures On A Wall”, con quei synth molto molto anni ‘80. Lo spartiacque dell’album; da qui iniziano dei richiami più “ferryani” alla vecchia maniera. In “White noise” sentiamo cicale di sottofondo, diventa tutto più a fuoco e leggermente solare.
Fa troppo caldo per correre / Meglio stare in attesa / Acqua fresca dalla macchina / E premendo un pulsante / Nastri da casa / In una settimana invio cinquanta articoli / E dove sono ora? / Alla deriva / È tutto ciò che le mie notti hanno rotto / Con un battito estraneo / Il calcio dell’adrenalina / mentine per il respiro senza limiti.
Poi arriva il brano “Loose talk” a chiudere il disco e sentiamo un Ferry pienamente scatenato nel suo stile. Com’è creare un album in un’epoca di podcast? Credo che questo disco rifletta bene questa nuova abitudine storica che sta educando le orecchie della massa ad altro, a un ascolto più attento a parole che narrano ma non in maniera cantautoriale; tutto ciò è un melting pot di attitudine letteraria e musicale allo stesso tempo. Non penso sia un caso che “Loose Talk” sia uscito ora: doveva attendere l’epoca giusta per essere partorito. Questa forse è la differenza tra un essere umano e una canzone: il primo non sceglie l’epoca in cui nascere, anzi ne è traumatizzato; la seconda invece necessita l’attesa del decennio giusto per vedere la luce e in questo il suo senso di esistere ne è completato.
Articolo di Mirko Di Francescantonio
Tracklist “Loose Talk” e “Loose Talk Instrumental”
- Big Things
- Stand Near Me
- Florist
- Cowboy Hat
- Demolition
- Orchestra
- Holiday
- Landscape
- Pictures On A Wall
- White Noise
- Loose Talk
Line up Bryan Ferry e Amelia Barratt: Amelia Barratt: vocals / Bryan Ferry: piano / Tom Vanstiphout, Jeff Thall, Ollie Thompson: guitar /Maxwell Sterling, James Garzke: programming / James Eller, Guy Pratt: bass / Paul Thompson, Tara Ferry: drums /Nathan ‘Tugg’ Curran: e-Drums
Line up Bryan Ferry e Amelia Barratt online:
Instagram: www.instagram.com/bryanferry_roxymusic/
Instagram: https://www.instagram.com/amelia__barratt/