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Don Antonio intervista

Nuovo album ma è anche primo libro; progetti totalmente autonomi ma legati, che procedono in parallelo

Don Antonio

La nostra recensione di “La Bella Stagione” di Antonio Gramentieri si conclude così: è un disco che respira e fa respirare, come quando si apre una finestra in una stanza chiusa da troppo tempo, c’è tanta genuina ricerca di sincerità, un album che ti si avvicina e che ti parla come a un amico, che non vuole elargire alcuna assoluta verità ma solo raccontarti delle storie.

“La bella stagione”, è il tuo nuovo album, il secondo come Don Antonio, oltre alle altre incisioni, ma è anche il tuo primo libro; progetti totalmente autonomi ma legati, che procedono in parallelo. Si tratta in ambi i casi di storie. Ci racconti la genesi di questo doppio progetto?

No, non è il mio primo disco in assoluto però è vero che ha i crismi dell’esplorazione della stanza, anzi dell’edificio creativo che non avevo mai aperto con la medesima decisione, la medesima sincerità e forse anche il medesimo rischio. È la prima volta che scrivo da solo tutte le canzoni, per esempio nel disco “The Crossing” con Alejandro Escovedo abbiamo composto insieme, al 50% ciascuno i brani, però poi sul palco era lui davanti a cantarli, io facevo il chitarrista, per cui non mi esponevo troppo. In questo caso mi sono preso la responsabilità sulle spalle di scrivere le storie e di essere anche quello che le racconta. È vero che sono storie talmente personali che non me la sentivo di chiedere a qualcun altro di cantarle; anche se io non sono un cantante in senso tecnico era giusto che fossi io a interpretare le mie storie. È un album che cerca il contatto molto intimo con chi lo ascolta, un’intimità senza premeditazioni.

Ho appena compiuto 49 anni, da quando ne ho circa 45 ho cominciato ad avvertire di volermi relazionare con il passato in maniera diversa. Il passato iniziava ad avere una distanza e una prospettiva che non consentiva più di allungare una mano e afferrarlo, ma cominciava a essere una terra straniera che non potevo più visitare ma solo guardare in fotografia e ammirarne i ricordi, non più una terra dove sentire il mio passo di oggi. È questa improvvisa distanza dall’esperienza che mi ha fatto riflettere … Cose fatte e non fatte, mettere in fila tutte queste cose a mo’ di bilancio non morale ma emotivo di questo momento di transizione, una mia fase di sospensione che poi per caso è diventata una fase di sospensione dell’umanità.

Le storie sono dunque tutte vere, sia quelle del libro che delle canzoni?

Quelle del libro sono vere ed esplicite, nelle canzoni utilizzano giocoforza un registro più vicino a quello della poesia, a quello dell’evocazione, facendo tutte riferimento a sensazioni e stati d’animo più che a eventi nella sequenza temporale.

Per fare questo disco, questo tipo di disco, hai scelto uno studio analogico che è anche un po’ un laboratorio che ti ha permesso di concretizzare la tua idea musicale?

Sì, assolutamente, la mia generazione ha iniziato a registrare quando è avvenuta la transizione tra l’analogico e il digitale; nelle diverse modalità non cambia solo la qualità del suono ma anche e soprattutto il procedimento. Lavorando in analogico non sempre hai la totale reversibilità del gesto, e questo ti porta a pensare di fare una performance più che registrare, come tu fossi dal vivo, si suona tutti insieme, con un coinvolgimento più performativo. Questa era ciò che mi interessava, inoltre volevo lavorare vicino a casa, così che il risultato riflettesse un senso domestico di appartenenza che è poi lungo tutti i testi, e circondarmi di amici fidati a cui sapevo esattamente cosa chiedere soprattutto nell’approccio emotivo alle storie che andavamo a musicare. Sono molto contento del risultato, per me è un passaggio che sentivo necessario, e averlo realizzato in questo modo mi ha gratificato.

Don Antonio

I musicisti amici ospiti sono tanti, ma l’album non risulta con una grossa stratificazione sonora. Ha anzi un’ariosità che non ti aspetti quando ci sono diversi strumenti coinvolti.

C’è molto spazio, volevamo che il silenzio e lo spazio giocassero come fossero un elemento aggiunto nel gruppo; il fatto poi che io non sia un vocalist dalle doti particolarmente acrobatiche ha contribuito a creare uno spazio e un’economia di gesti dove fosse protagonista il racconto. La mia è una scrittura molto in controtendenza rispetto a quello che c’è in giro, ma ho per fortuna un’età non devo rincorrere mode, mi posso concedere di fare quello che desidero.

Tu sei un musicista di esperienza, hai girato il mondo in lungo e largo con musicisti di altrettanta esperienza, puoi sicuramente seguire la tua strada personale!

Negli anni c’è stata per me una stratificazione di esperienze, una geografia di ascolti. In un momento in cui tutto il mondo può ascoltare lo stesso disco nello stesso momento, per un giovane musicista significa avere tutto sottomano, ma diventa quasi impossibile fare quel percorso, un po’ sofferto ma molto formativo e soltanto tuo. Adesso con i villaggi globali è tutto in diretta, mentre noi scoprivamo in differita e faticosamente, e questo ci ha fatto maturare un rapporto con il suono di altro tipo.

Questo disco infatti secondo me non andrebbe sentito in mp3, ma dallo stereo, magari dal piatto …

Premettendo che non esiste il bel suono ma il suono che piace, io ho sempre fatto i vinili di tutti i miei dischi, che prevede una cura nel confezionarlo. Sicuramente il gesto di mettere un disco sul piatto, abbassare la puntina, prevede un ascolto paziente, senza skippare, crea una relazione con il suono e con la canzone che è più rispettoso e più rituale. La musica ha bisogno del rito. L’atto di ascolto è consapevole. I player mettono a fuoco i tuoi gusti e ti consigliano appropriatamente, ma viene meno la scelta consapevole e condivisa con altri, tutto si consuma con tempi rapidi e ti impedisce di creare una relazione profonda con i suoni, anche quelli che non ti piacciono.

Per questo disco hai registrato 25 canzoni, poi hai fatto una grossa selezione!

Sì, magari in futuro usciranno anche quelle che non sono sul disco. Anche qui abbiamo fatto un’operazione di sottrazione, di economia, perché il disco doveva raccontare storie di sensazioni, e una canzone in più non avrebbe aggiunto ma avrebbe tolto. Ho scelto le 10 canzoni che mettevano a fuoco ciò che volevo mettere a fuoco.

Nel CD con i cinque brani che accompagna il libro (lo trovate insieme al libro stesso) che materiale hai inserito?

Ci sono due inediti che non hanno trovato spazio nel disco ma che secondo me sono perfetti per accompagnare il libro, poi ci sono tre brani dell’album ma registrati dal vivo, la prima volta che con la band abbiamo suonato dal vivo l’estate scorsa.

“Dal vivo”, parola magica. Programmi?

Quest’estate pare che ci sarà la possibilità di suonare, andare in giro abbastanza tranquillamente, sperando in una futura riapertura anche dei club. La gestione della pandemia ha penalizzato indiscutibilmente il mondo della cultura e la musica; mi preme dire che un’occasione per una consapevolezza etica di solidarietà sociale è stata completamente bruciata per tutelare unilateralmente alcune categorie rispetto ad altre. È stato deciso a tavolino chi aveva diritto di continuare a vivere la propria vita e chi no, senza particolari preavvisi o paracadute o forme di rispetto. Certo una risposta serviva, ma non è stata la risposta giusta, ha penalizzato e messo in difficoltà chi aveva di meno e concentrato le tutele in chi aveva di più. È devastante.

La domandaccia di Rock Nation: quali sono i tuoi tre dischi del cuore?

È sì, nominarne solo tre è difficile! Sicuramente “Time Out Of Mind” di Bob Dylan, “New York” di Lou Reed e “Strange Pleasure” di Jimmie Vaughan. “Time Out Of Mind” e “New York” mi hanno accompagnato nella vita da quando sono usciti; quel disco di Jimmie Vaughan specificatamente, in un’epoca in cui ero interessato quasi solo al Blues, mi fece capire che quel Blues, di tipo texano, era affacciato sia sulla borderline che su tutto questo meticciato bianco, nero, ispanico, contaminato e interessante. Un disco che nella sua semplicità ha dentro tante cose.

Articolo di Francesca Cecconi

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