Carlo Bellotti, classe 1976, lavora nell’ambito musicale da più di trent’anni, grazie alle sue intuizioni imprenditoriali è riuscito a diventare un punto di riferimento nel panorama musicale europeo, costruendo una rete di produzioni con artisti di tutto il mondo. Pioniere della musica digitale, Carlo ha creato un modello di Know-How vincente grazie al quale, oggi, con le sue due etichette è presente in cinque sedi dislocate in tutto il mondo. Senza ombra di dubbio possiamo dire che la Carlo Bellotti Publishing rientra a pieno titolo tra le eccellenze made in Italy.
Sotto la Carlo Bellotti Publishing ci sono due etichette, la WormHoleDeath e Epictronic. Qual è la storia della nascita di queste?
Bisogna partire dall’inizio. Quando ero ragazzino facevo le produzioni in studio, essendo io musicista e compositore avevo prodotto un po’ di gruppi della zona e anche italiani. Successivamente cominciai ad andare al Popkomm a Berlino, ovvero alla fiera degli addetti ai lavori, e facevo le brochure con le mie produzioni. In quelle occasioni funziona che fissi appuntamenti con chi vuoi, a seconda di quello che stai cercando, a seconda di chi vuoi incontrare. Io stavo cercando, in realtà, delle grosse società che potessero appoggiare le mie produzioni, questo, al fine di poter diventare una realtà strutturata, e quindi fissavo appuntamenti con le major, più che altro, come Sony, Universal, Warner, per far ascoltare il mio materiale. Quando incontrai la Warner, rimasero estremamente colpiti dalla qualità dei miei lavori. Mi proposero di aprire una società editoriale sotto Warner Chappell.
Ho accettato e sono diventato editore. Una volta però che tu diventi editore devi dare un servizio agli artisti, che diventano compositori sotto le edizioni, per servizio intendiamo solitamente o soldi in anticipo royalties, oppure servizi di promozione o addirittura label service, perché è inutile prendere le edizioni di un artista che poi dopo non fai girare. Abbiamo pensato di aprire le nostre etichette per poter dare agli artisti che ci cedevano le edizioni un supporto reale e concreto di distribuzione e promozione in cambio delle edizioni, così loro ci davano qualcosa per un qualcosa e noi facevamo girare le edizioni che cominciavano a generare degli introiti. Differente quando una band ha già un contratto discografico, a quel punto tu dai, ad esempio, degli anticipi, perché sai che andrai a recuperare dei soldi. L’artista ha già la sua etichetta e tu fai solo da editore, quindi fai il tracking e collecting delle royalties, fai amministrazione del copyright, gli cerchi di procurare le sync e tutto quello che riguarda il lavoro di editore. Quando invece l’artista non è sotto casa discografica, e quindi è da solo, lo inserisci sotto la tua struttura, sotto la tua etichetta, così l’artista ha fuori il disco, lo l’ha distribuito, ha la promozione, suona in giro e queste edizioni ti cominciano a fruttare. L’artista è contento perché ti ha ceduto i suoi diritti a fronte di un servizio che ha un valore economico e l’artista, insieme a te, guadagna, oltre che dalle sue edizioni anche dalle royalties fonomeccaniche o dalle royalties di vendita.
Questo per quanto riguarda la WormHoleDeath, che nasce sotto Aural Music Group. Quando cominciai con Warner loro mi dissero di continuare a fare il Metal, di non fare altre cose. Erano i tempi in cui la Warner stava investendo molto sul Metal, e quindi continuai a fare Metal per tantissimo tempo, sotto Aural Music Group, perché conoscevo Emiliano Lanzoni. Aural Music Group è un gruppo di etichette di Imola che ha sia case discografiche che anche un grosso network di distribuzione e di marketing. Come etichetta appena nata, ci siamo ovviamente inseriti, perché così avevamo la credibilità di essere all’interno di un grosso gruppo. Oltre ad avere Warner come publisher avevamo anche un grosso network di distribuzione, un grosso marchio a livello di label group proprio all’interno di un gruppo di etichette di Metal e comunque avevamo accesso alla distribuzione in ogni paese d’Europa e anche America. Nello stesso tempo abbiamo preso anche il contratto con Orchard ovvero i primissimi contratti di aggregatori digitali. Non si sapeva neanche cosa fossero in realtà, all’epoca, perché si sta parlando del 2000 o poco più. Tutti quanti avevamo un grosso punto interrogativo sulla testa, dicevamo: però dai, questo sembra essere il futuro, firmiamo. Orchard erano due ragazzi in un garage, bene o male adesso è una divisione della Sony quotata al NASDAQ
Successivamente grazie all’entrata di un creativo nella sede Warner dei Paesi Bassi iniziammo a pensare di produrre altri generi, essendo comunque io un grandissimo fan dell’Indie Rock, dello Shoegaze, del Dub e del Jazz. Così è nata Epictronic nel dicembre 2008, da lì abbiamo cominciato a fare anche altri generi, finalmente, con produzioni Indie Rock, Shoegaze e quant’altro potesse dettarmi la mia fantasia. In questo modo ci espandemmo ulteriormente, riuscendo a prendere collaborazioni con Redeye in America, dopo poco abbiamo aperto la sede giapponese, abbiamo aperto l’ufficio a Los Angeles e da lì ci siamo ingranditi ancora fino arrivare ai giorni di oggi dove abbiamo 30 persone nell’organico, 4 uffici e stiamo aprendo ora il quinto in Inghilterra È difficile parlare solo delle due etichette senza fare un cappello introduttivo, perché le etichette non nascono come funghi, ma nascono all’interno di un contesto editoriale.
Leggendo la tua biografia mi ha incuriosito la tua partecipazione a un convegno alla Sapienza nel 2007 dove ti chiamarono a parlare di musicale digitale, quando ancora la visione della musica liquida era lontana, in questo contesto possiamo dire tu sia stato un precursore?
Fui chiamato alla Sapienza proprio per dare delucidazioni ai professori, perché il mio convegno in realtà era aperto al pubblico, e venne tantissimo pubblico, ma gli avventori erano principalmente i professori del MMM ovvero Master in Management Musicale. Il convegno aveva la funzione di spiegare come si sarebbe evoluta da lì a un tot di anni la musica digitale, la musica liquida e poi tutta la parte dello streaming, comprese anche le piattaforme. Perché come spiegavo, prima nel 2000 e poco più avevamo firmato con Orchard e facevamo contratti di distribuzione digitale. Eravamo avanti anni luce rispetto a tantissime altre strutture, tantissime altre etichette, tantissimi altri professionisti, perché ci stavamo confrontando già con gli americani, con i più grandi aggregatori, quindi con quello che sarebbe poi diventato il più grande aggregatore in assoluto del digitale. Avevamo un know-how che era superiore rispetto a quello che si trovava in giro all’epoca, infatti mi chiamarono per questo motivo. Questo convegno alla fine si è trasformato in una lezione in cui ho spiegato quello che poi sarebbe stato il futuro della musica digitale da lì ai prossimi cinque, dieci anni. Cosa che poi è successa. Considera che il logo della locandina per pubblicizzare il convegno era EMule. All’epoca non c’era ancora la concezione del vendere la musica digitale o addirittura dello streaming come Spotify, che ha fatto talmente tanti danni e ha creato talmente tante opportunità che ha ribaltato completamente il mercato.
La questione streaming è sempre molto controversa, tu hai detto che ha fatto anche tanti danni secondo te sono danni irrimediabili? Che visione hai di questo mondo?
Io ho una visione del digitale tutta mia, nel senso che la persona che scarica il disco dal Torrent russo oppure se lo va ascoltare su Spotify non ha nessuna differenza da quello che prima si registrava la cassetta analogica dal cugino. Per me non c’è nessuna differenza se si “ruba la musica” con il fine di conoscerla per poi usufruirne, comprarla o diventare fan della band andando ai concerti, comprando merchandising, comprando magari anche il disco ufficiale originale. Per me non è cambiato niente, quindi il digitale in questo senso per me è positivo. È negativo quando si comincia a pensare che adesso con un computer chiunque può fare un disco, chiunque si intona la voce, chiunque si mette la batteria a tempo, chiunque può fare canzoni, e poi chiunque le può mettere online. Esistono sistemi che fanno mettere qualsiasi disco senza nessun tipo di selezione purché si paghi, anche su portali importanti come i Tunes, come lo stesso Spotify. Chiunque può promuovere il proprio modesto lavoro pagando e mettendo su YouTube il video.
Quando vedi questo sistema, in cui una moltitudine di persone che non ha nulla a che vedere con la musica, pensa che grazie all’AI possa sostituirsi a professionisti, in questo senso, troviamo la rovina dell’arte, la rovina della musica, la rovina di chi aveva un talento e viene distrutto, depauperato, da coloro che vorrebbero fare le rockstar, e invece fanno prodotti di bassissimo livello, che vengono messi sul mercato in milioni di uscite giornaliere. Cose che vanno a intasare, saturare completamente il mercato. Posso capire chi mi critica per un discorso del genere, però io lo faccio di lavoro, sono un professionista non posso avallare questa gente che mette produzioni come quelle di adesso, che sono plastica pura. Dalla batteria alle voci ormai si fa tutto con software. E io non posso accettare né avallare un sistema simile che penalizza la qualità.
Riguardo la parte digitale hai la tua chiarissima visione, ma cosa ne pensi del vinile come supporto, che sta tornando fortemente di moda?
Il vinile è una questione controversa per i musicisti, nel senso che a voi che state dall’altra parte della barricata ve lo stanno facendo vedere come se fosse qualcosa che è tornato, come se fosse un qualcosa di pazzesco solo perché guadagna chi li vende, chi li stampa, chi li produce. Il vinile non è assolutamente un prodotto comprato dai fan dei piccoli gruppi underground. Il vinile è un prodotto, che funziona solo per i gruppi famosi, per i gruppi grandi perché il vinile lo comprano solo i fan delle grandi band, non lo comprano le persone normali che hanno appena conosciuto un gruppo.
Adesso vanno di moda le edizioni limitate…
La realtà che è che ne stampano pochissime copie perché ne vendono pochissime copie, anche se le edizioni limitate sono sicuramente prodotti e configurazioni più interessanti rispetto il semplice vinile.
Come avviene il processo di selezione delle nuove band?
Il processo di selezione è una cosa estremamente interessante nel nostro caso, nel senso che vogliamo conoscere le persone in prima battuta, successivamente il primo approccio va sia alla musica che all’estetica della band. Per noi è importantissimo conoscere i musicisti, quindi chi si occupa del processo di selezione di entrambe le etichette sa che è fondamentale conoscere chi si approccia a noi in quanto devono rientrare in un certo tipo di parametri. L’umiltà è la prima cosa, non è un discorso di gerarchia piuttosto direi che ha a che vedere con il rispetto reciproco, sempre e comunque. L’umiltà per noi è fondamentale perché queste persone devono imparare tutta una serie di cose che magari non conoscono o se le conoscono le devono comunque migliorare. Anche noi dobbiamo imparare da loro, quindi devono essere persone estremamente intelligenti, estremamente argute.
Devono avere un approccio imprenditoriale alla musica, perché adesso non è più sufficiente essere solo un bravo musicista bensì devi essere un bravo manager, devi essere un bravo social media, devi essere un bravo imprenditore. Devi essere a 360 gradi un bravo manager di te stesso, della tua band e della tua musica. A quel punto, quando noi capiamo che c’è una situazione paritaria a livello di potenziale, allora si può pensare di fare un accordo. Noi facciamo contratti in cui la band viene trattata come un’azienda, non c’è più il vecchio contratto di licenza in cui il gruppo è l’artista coccolato, no, il gruppo deve essere un’azienda che deve investire e lavorare insieme a noi e si divide quello che si guadagna. Se ci rimettiamo non importa, ci abbiamo provato e abbiamo provato tutte le strade per farlo, perché l’abbiamo fatto bene, l’abbiamo fatto con tutti i crismi e tutti ci abbiamo creduto. A quel punto ci possiamo anche riprovare, insieme, perché c’erano tutti i parametri che avevamo prestabilito e perché tutte le caselle erano flaggate. Il gruppo vede, da parte nostra, che c’è un certo tipo di lavoro fatto per cui non si lamenta se le cose dovessero andare non proprio bene, da parte nostra, non c’è mai una colpevolizzazione verso la band, perché comunque la musica l’abbiamo scelta noi e abbiamo deciso noi cosa fare col gruppo, per cui noi siamo sempre pronti e disposti a riprovarci con la stessa band. A ogni modo nel 90% dei casi c’è sempre un risultato che può essere non necessariamente economico ma magari di promozione, magari di bei tour che abbiamo fatto, magari di bei festival, magari di cose che siamo riusciti ad ottenere con il gruppo, e di cui poi andiamo fieri e che magari sono trampolini che ci fanno andare avanti per i prossimi lavori, per i prossimi album e per lavorare insieme quindi per fartela breve ci devono essere tutti questi parametri di cui ti parlavo. L’umiltà delle persone ma a loro volta anche l’imprenditorialità, la loro voglia di auto promuoversi e di lavorare con le case discografiche spalla a spalla, la loro voglia di essere manager di loro stessi e la loro voglia di approcciare al mondo della produzione di un disco come un’azienda e non più come l’artista che sta lì ad aspettare che la casa discografica faccia tutto, perché non funziona più così. È una ricerca per portare sempre a livelli più alti la qualità della musica che viene proposta. Noi abbiamo altissimi standard e vogliamo che ci sia quindi tantissima qualità
Chiudo sempre queste nostre chiacchierate chiedendo di definire con una parola, un aggettivo, l’etichetta, nel tuo caso le etichette sono due, come le definiresti?
Definirei tutto ciò che comprende anche il nostro lavoro, la nostra esistenza all’interno della struttura, all’interno delle etichette come incendiario, fondamentalmente incendiario.
Articolo di Silvia Ravenda