16/11/2025

Fun Lovin’ Criminals, Milano

16/11/2025

Fun Lovin’ Criminals, Milano

16/11/2025

Edoardo Bennato, Bologna

16/11/2025

Micah P. Hinson, Fidenza (PR)

16/11/2025

Total Reverends, Roma

17/11/2025

Elisa, Bari

17/11/2025

Fun Lovin’ Criminals, Bologna

17/11/2025

Negrita, Bari

17/11/2025

Radiohead, Bologna

17/11/2025

Gio Evan, Verona

17/11/2025

Negrita, Bari

18/11/2025

Elisa, Eboli (SA)

Agenda

scopri tutti

C’mon Tigre live Bologna

Tecnologia, arte, interazione. Qualcosa che ha a che fare anche con il visivo oltre che con la musica

In occasione del Robot Festival di Bologna, i C’mon Tigre hanno proposto, il 10 ottobre al Dumbo, un nuovo spettacolo visivo oltre che sonoro chiamato “LUMINA – Immersive Frequencies, a Technological Dancefloor”. L’ultimo loro lavoro risale al 2024, “Instrumental Ensemble, Instrumental Ensemble – Soundtrack For Imaginary Movie Vol 1”, che ricorda molto come concetto il “Passenger: Original Soundtrack Vol 1” del 1995 concepito da Brian Eno, U2, Howie Bee e altri ancora: colonne sonore per film immaginari – o quasi, recentemente ristampato in vinile per l’ultimo Record Store Day.

Un disco che ho sempre adorato, ben venga che qualcuno colga il testimone. Citazione voluta nel precedente disco del collettivo italiano? Mi viene da pensare di sì, leggendo nel titolo quel comune “Vol 1”. Questo marca tuttavia la linea di ricerca che la band sta percorrendo e continuando con “Lumina”. Inizialmente, dagli inviti, tutto era velato da un leggero mistero che non poteva che alimentare curiosità già dal titolo. Tecnologia, arte, interazione. Qualcosa che ha a che fare anche con il visivo.

Quando entriamo nel “Binario bianco” dello spazio Dumbo veniamo accolti da un vortice di luce: l’ambiente è buio, vedo sagome scure vagare davanti alla cassa per i drink e delle luci blu: sono le cuffie wireless che consegnano, in cambio di un documento di identità, prima dello spettacolo. Il giocare sull’attesa, questo gioco di luci al buio, credo sia parte integrante dello spettacolo: è un lento calarsi in quel che verrà. Dopo esserci procurati le cuffie avanziamo oltre un telone di gomma che separa l’ampia aula d’attesa con quello dello spettacolo.

Entro e mi guardo attorno: la sala dove si svolgerà il tutto è circondata da alti monitor verticali che proiettano immagini pizzicate da glitch raffiguranti volti con fregi sullo stile tribale. I volti ti osservano, parlano. Sulle balconate vedo telecamere, immagino che lo spettacolo di stasera sarà ripreso per qualche produzione video del collettivo.

Il palco è lungo e centrale nel parterre; il pubblico quindi vi camminerà attorno per vedere, nelle postazioni, gli elementi del gruppo. Scorgo percussioni, un violoncello, delle chitarre elettriche, sintetizzatori, una batteria, un basso e, credo, un oud: quest’ultimo elemento lascia presagire qualcosa di orientale in quello che ascolteremo. La postazione del mixer poi è dentro il palco stesso, come un membro del collettivo, uno strumento.

Mentre cercavo di prendermi una birra arriva una ragazza dell’organizzazione avvisandoci che lo spettacolo sta per iniziare. Indosso così le cuffie, rientro in sala e i volti sui monitor ci illustrano cosa stiamo per vivere: nelle cuffie ci raccontano che sarà un’esperienza immersiva dove i suoni ci arriveranno da sinistra, destra, dall’alto e dal basso; sarà un enorme gioco di balance, come in un disco, ma tutto fatto dal vivo.

A quel punto entra il collettivo di musicisti: indossano una sorta di impermeabile lucido con cappuccio con dei fregi fluo arancioni. Loro sono truccati, hanno questa sorta di fascia fluo che percorre gli occhi, mi ricordano il trucco di Michael Stipe ma soprattutto richiamano i volti nei monitor attorno. I membri del collettivo sono posizionati “di spalle” al pubblico, dunque rivolti verso loro stessi a mo’ di semi cerchio, un nucleo concentrato sul cuore delle sonorità proposte durante il live, una sorta di cassa umana e tecnologica che batte. A quel punto il live inizia, le persone indossano le cuffie e vedo alcune di loro chiudere gli occhi e lasciarsi trasportare dal beat. Non mancano le occhiate curiose, ci si guarda attorno per cercare di capire cosa si sta vivendo più che accadendo.

Ho fatto ovviamente la prova di togliermi le cuffie a più riprese: tutto ciò che potevi sentire era la batteria acustica e un gran silenzio attorno con persone che ballano: un quadro anomalo, curioso. Rimetto le cuffie e rientro nel concerto.

Parliamo del live e delle sonorità: cosa hanno suonato durante questa esibizione di un’ora? Di recente hanno pubblicato un singolo “K//A\K//A” e se lo avete ascoltato è un ottimo timone per traghettarvi sulle sonorità proposte: elettronica delicata, beat, contaminazioni con strumenti classici e orientali: tutto naviga verso l’Africa in qualche modo, in questo nuovo lavoro. “Nuovo lavoro”, già, perché credo che abbiamo sentito parte del nuovo album in arrivo che chissà, forse sarà registrato proprio live in queste date.

Non so quanti di voi hanno ascoltato lo splendido disco omonimo dei St. Germain uscito nel 2015, un album contaminato da sonorità stavolta Tuareg rispetto al più conosciuto “Tourist”; siamo quasi su questo genere, seppure i St. Germain siano più lounge e i C’mon Tigre più diretti e sintetici con una kick ben più presente.  Se fosse un frullato? L’album “St. Germain” frullato con Bijork, i Passenger di Eno e altro ancora. Amanti del genere, vi sto consigliando di darci un orecchio e tenerli a questo punto anche…d’occhio.

Un live che fa riflettere

La mia riflessione e ipotesi vanno su come probabilmente il periodo del Covid e il suo isolamento abbia portato delle idee su come vivere delle esperienze in maniera diversa. Mi chiedo se senza covid e isolamento questo spettacolo sarebbe stato concepito. Mi chiedo quindi se “Lumina” sia uscita fuori da questo, se sia stata una reazione collaterale, anni dopo, conscia o anche inconscia.  Ho pensato all’isolamento, sì, perché vedendo tutti in cuffia non avevo la percezione della socialità classica di un live ma di un insieme di persone isolate che stanno insieme. Non fraintendetemi, non è negativa la cosa, è solo differente come modo di usufruirne: riflettendo anche in redazione è uscito anche il pensiero del “quante volte sono stato in un live dove l’acustica era pessima e avrei voluto delle cuffie”: è un modo per primeggiare l’attenzione sulla musica rispetto alla socialità da locale.

Altro spunto; mi ricordo quella parte del libro “Come funziona la musica” di David Byrne in cui si parla dei leggendari riverberi degli anni ‘80 in studio: non solo una scelta estetica ma soprattutto una tecnica per ricreare ambiente dentro le isolanti cuffie degli allora popolarissimi walkman. Accadrà dunque anche in questi live dal vivo? Si creerà un sottoambiente dentro un ambiente? Sarebbe da chiedere al collettivo che forse mi risponderebbe “be’, lo abbiamo appena fatto”.

Questo spettacolo dà da riflettere, è a modo suo una provocazione e credo che sia un sasso che valeva la pena lanciare, da parte del collettivo. Del resto il compito dell’artista, più che intrattenere e più che dare risposte molte volte è porre domande giuste nel periodo giusto.

Articolo di Mirko Di Francescantonio, foto di Giovanna Dell’Acqua

© Riproduzione vietata

Iscriviti alla newsletter

Condividi il post!