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Davide Van De Sfroos instore Verona

Un artista del suo calibro si mette in gioco con la sola chitarra per presentare il nuovo disco e incontrare i fan

Davide Van De Sfroos ha fatto tappa a Verona alla libreria Feltrinelli mercoledì 18 ottobre, per presentare, accompagnato dal giornalista Enrico de Angelis, il suo ultimo lavoro “Manolia” (la nostra recensione). Questa scelta porta a due riflessioni. La prima, che se serve a un cantautore della statura di Van De Sfroos, fare un tour firma copie, vuol dire che il mercato discografico è davvero in crisi. Parliamo, infatti, dell’ultimo grande rappresentante della nobile scuola che, con Dylan, e grazie al suo Nobel, è ormai da considerarsi letteratura. E i lavori di Van De Sfroos, e le sue canzoni, anche quelle di quest’ultimo album, lo sono per davvero. Allo stesso tempo, se rovesciamo la medaglia, è positivo il fatto che un artista del calibro di Van De Sfroos si metta in gioco, spesso con la sola chitarra, per presentare il suo lavoro, incontrare i fan, e dialogare con loro.

Meglio ancora, come spiega bene de Angelis (ottima conduzione davvero), Van De Sfroos è un grande narratore; è sempre un piacere sentirlo raccontare le sue storie. Vero, perché questi incontri, pur se la chitarra ci sarà, come ci ha raccontato nella nostra intervista, serviranno per spiegare, anzi, a costo di mettere delle ripetizioni, per raccontare storie, in particolar modo quelle di “Manolia”. Un album intimo, che non rinnega quanto fatto in passato, ma che nasce senza esigenze di mercato, ha ricordato Van De Sfroos. Ho aperto dei cassetti… ma non pensate che siano cassetti fisici. Non ho in casa grandi cassapanche piene di canzoni. Qui, in questo album, ho aperto cassetti della mia esistenza, della mia vita. Da questa operazione sono nate le undici canzoni del disco.

De Angelis porta Van De Sfroos a parlare di sé, di questo viaggio lungo 11 canzoni che, nel corso della serata, verranno proposte, non tutte, al pubblico presente in sala. Un lavoro legato anche a Verona, ha ricordato il cantautore, dato che ci hanno messo le mani alcuni produttori e tecnici del suono scaligeri, persone che lavorano da tempo con Van De Sfroos.  La serata scorre via davvero in modo piacevole, la formula funziona bene. Anche la scelta, in questo caso, di voce e chitarra, non mette di certo a nudo il Nostro, ma lo ha reso ancora più intimo e vicino, dimensioni che sono quelle che dominano e caratterizzano questo ottimo disco che è un ritorno a casa.

Prima dello showcase, Davide è stato molto gentile nel dialogare con chi scrive. Aneddoti, ma anche piccoli segreti di lavorazione, e, soprattutto, l’immancabile battuta: per voi giornalisti l’ultimo album è sempre bello. Ha ragione, e al momento non ho saputo, in modo pronto, uscire dall’angolo (per usare una metafora del mondo della boxe). Poi c’ho pensato.

In un mondo dove dominano i copia&incolla dei comunicati stampa, noi siamo una testata giornalistica che va, presenzia, ascolta e recensisce senza usare – se non per note tecniche – i comunicati stampa. Nel tranello, ormai, cadono tutti, anche gli addetti ai lavori. Noi ci sforziamo di fare in modo diverso. Così ora so cosa rispondere a Davide: “Maader folk”, album che arrivava dopo sette anni dal precedente, e che conteneva, per ammissione dello stesso autore, molte suggestioni, conteneva canzoni diverse e sperimentazioni. Legittimo.

Un autore deve fare questo, e il pubblico è chiamato ad ascoltare e fare le sue considerazioni. Non dico che quell’album fosse brutto, anzi. Tuttavia, l’ho sentito troppo costruito, pensato per andare alla ricerca anche di altre persone. Giusto così, ci mancherebbe. Ma per questo motivo l’ho sentito poco genuino, come un salame da macelleria messo a confronto con uno fatto in casa. Entrambi sono buoni, ma uno ha una marcia in più. Quindi, un autore è condannato al suo pubblico? No, deve cercare sempre nuovo pubblico. Ci mancherebbe altro…

Chi, però, come me, ascolta da anni Van De Sfroos – dai tempi lontani, quando Davide non aveva la giusta, e meritata, considerazione che ha ora – si sente a casa in questa dimensione. Detto altrimenti, la versione rap/reggae di “Per una Poma”, proposta nei live dell’estate scorsa, non mi è piaciuta. Non l’ho sentita mia. Lui ha fatto bene a proporla così, come Dylan fa bene a cantare “Like A Rolling Stone” in mille modi diversi, ma non tutti questi piacciono alle stesse persone. Ergo, l’ultimo lavoro l’ho sentito mio, perché queste canzoni mi parlano, quelle dell’ultimo lavoro, no.

“Forsi”, canzone dal ritmo manouche del lago, come lo ha definito Van De Sfroos, nell’album non mi entusiasma, ma la versione chitarra e voce, suonata alla maniera di Django Reinhardt, mi ha fatto sobbalzare sulla sedia. Questo è il senso, dunque, della risposta che avrei dato a Van De Sfroos davanti alla sua questione, ben posta, perché ogni persona che fa questo lavoro elogia sempre l’artista per il suo ultimo lavoro (oddio, non per forza, certe volte c’è del mestiere nel dire le cose…).

Così, fra racconti sui cassetti, alcune canzoni del nuovo lavoro, il singolo “Manolia”, che in versione acustica è bellissima, come “La ballata del Mascheraio”; le ricerche interiori, le storie dei mascherai, dei vecchi al bar, lo spirito autunnale che anima questo album che, lo ripeto, è un bel ritorno a casa, ai tempi del grande “Akuaduulza”, disco praticamente perfetto, passando poi per gli animali totem, le maschere e i ricordi che cadono, come foglie di “manolia”, Van De Sfroos regala davvero un’ora e mezza di rara bellezza.

Ad un certo momento mi sono sentito come nel film di Olmi, L’Albero degli zoccoli: ero anche io in quel fienile, ad ascoltare storie. Esperienza di un passato, non vissuto in prima persona, ma visto nei film, e sentito raccontare dai nonni. Vi consiglio di partecipare a questo particolare tour di presentazione. Primo perché il Nostro è davvero alla mano, cosa rara. Poi perché ha ragione de Angelis, sentirlo raccontare è un vero piacere. Vi si aggiunga che è uomo colto, cosa rara ormai nel mondo della musica, e allora capite bene che c’è davvero di che uscire soddisfatti.

Due particolarità, in chiusura. “Manolia”, e non “magnolia” come si dice in italiano. Non solo perché è il termine dialettale del Nostro, ma perché, spiega, Van De Sfroos, il dialetto lima le parole, le rende più semplici e morbide. Non “magnolia”, suono strano, ma “manolia”, come dicono i bambini, e chi deve raccoglierne le foglie quando cadono, o in generale le persone che vi si recano sotto…

Infine, il caso ha voluto che Davide Van De Sfroos fosse seduto davanti ai reparti dei libri di antropologia, con i testi di Marc Augé che spuntavano, insieme a quelli di Marco Aime (antropologo che ha molte corrispondenze con la musica di Van De Sfroos), e dei testi di Religione. Una bella coincidenza, “forsi”, chissà…

Articolo di Luca Cremonesi, foto di Roberto Fontana

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