27/07/2024

CCCP-Fedeli Alla Linea, Genova

27/07/2024

Cristiano De André, Piazzola (PD)

27/07/2024

Mercanti Di Liquore, Civate (LC)

27/07/2024

Vinicio Capossela, Verona

27/07/2024

Tre Allegri Ragazzi Morti, Torre Santa Susanna (BR)

27/07/2024

David Morales ft. Julie Mcknight, Taranto

27/07/2024

Martin Barre Band, Sigillo (PG)

27/07/2024

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27/07/2024

Radio Fantasma, Milano

27/07/2024

Patrizio Fariselli, Firenze

27/07/2024

Irene Grandi, La Spezia

28/07/2024

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Eric Clapton live Bologna/Milano

Non serve che lui dica qualcosa, bastano quelle sue sei corde

La scelta è obbligata. Per un semplice motivo. Si è trattato di concerti semplicemente perfetti. Non ci sarebbe nulla da aggiungere. Serve però inquadrare bene la questione, e l’affermazione forte di perfezione, riferita ai tre concerti italiani di Clapton. Il tutto va inquadrato in un contesto preciso, perché sia chiara questa presa di posizione. Quando si parla di perfezione, scrivendo su due – 9 e 12 ottobre – dei tre concerti del mini tour di Eric Clapton nel nostro Paese, mi rifaccio alla definizione tradizionale di Winkelmann dell’arte greca: un’arte caratterizzata da purezza formale, armonia, equilibrio e assenza di turbamento. Prendete questa definizione, e applicatela ai concerti di Bologna e di Milano, quelli ai quali ho avuto la possibilità di assistere, e non ci sarebbe appunto più nulla da aggiungere.

Tuttavia, come insegnava Gianni Clerici, grande narratore del tennis, siamo anche chiamati, noi che scriviamo, a raccontare ciò che gli altri non possono vedere. E così proviamo a farlo, e cioè ha descrivere quello che non avete potuto vedere, forse. Oppure, mettiamola così, ciò che vi può essere sfuggito, se eravate intenti a seguire la magia, e la messa in scena della perfezione. 

Il tempo. Clapton ha suonato, complessivamente, 5 ore e 18 minuti. I concerti sono stati tre, di poco più di un’ora e 46 minuti l’uno. Chi scrive ha assistito a 3 ore e 32 minuti di questo tour italiano. Perché dedicarsi al tempo? Presto detto. Glenn Gould, celebre esecutore delle “Variazioni Goldberg” di Bach (BWV 988), incise due grandi versioni di questo capolavoro. Fra la prima edizione, diciamola così, e la seconda, ballano 12 secondi. Quei 12 secondi rendono la seconda edizione, a detta di molti, migliore rispetto alla prima. Nel caso di Clapton possiamo dire la stessa identica cosa.

Pochi sono i secondi di differenza fra il primo show di Bologna e il terzo di Milano, ma questi fanno la differenza, perché il Nostro, nella capitale lombarda, non ha risparmiato una nota che sia una. Ha riempito ogni singolo momento di suono, e del suono delle sue note. Certo, per chi non può fare il paragone capisco che sembri strano. Clapton non ha parlato a Bologna come d’altronde a Milano. Solo qualche ciao, veloce, e grazie, il tutto rigorosamente in inglese, e poco più. Eppure la differenza c’è stata, e si è sentita. A Milano, se non per il cambio di chitarra, non ha mai staccato le dita dalla tastiera. Ne è risultato un concerto dal suono più pieno, meno frammentato, e soprattutto meno pulito di quanto sentito a Bologna. Non che mancasse perfezione a Milano, anzi. Ce ne era tanta, ma non era fredda, e tanto meno rigorosa, come accade invece in molti concerti attuali di musicisti inglesi (si vedano gli show dei Placebo di questa estate, LEGGI la nostra recensione). Clapton non riproduce pari pari quello che ha fatto nei suoi lavori. Anche la parte acustica, costruita sul modello della registrazione di “The Lady in the B6alcony”, e cioè le session durante il Covid, non sono belle copie dell’album. Il Nostro lavora sul modo di toccare le corde, di produrre effetti sonori; aggiunge e toglie note, le va a cercare in alto e in basso. Tutto questo produce margini di differenza che esprimono nuovo senso.

Le chitarre. Tre, e non una di più, nelle due date di Bologna e Milano (non so per la seconda data di Bologna, purtroppo non c’ero, la benzina costa cara d’altronde…). La Fender Stratocaster, la mitica “Blackie”, che però, se guardate bene le foto, nera non era, bensì blu scuro, tendente al nero. Ora, ditemi che questa non è classe. Appunto, ve lo dico io, e per tre motivi.

Il primo, di stile: blu scuro che si intonava con il suo vestito, blu appunto. Il secondo, di stile al quadrato: con le luci del palco quel blu scuro dava l’effetto del nero, colore al quale tanti di noi sono abituati per la sei corde di Clapton. Il terzo, di vanità: tutti a guardare la mitica “Blackie”, mentre lui stava suonando una Fender blu scura. Il mito è salvo, gli occhi hanno avuto la loro parte, e tutto ha funzionato. Nulla è stato lasciato al caso.

A Milano, poi, ha cambiato la “Blackie” blu scura solo per la Martin “Eric Clapton model”, sei corde acustica per il set unplugged. Con questa ha eseguito tutti e cinque i pezzi del set centrale, compresa la splendida versione quasi reggae di “Tears in Haeven”. Già! Lo so che è difficile crederci, eppure è così. Trovate il video su YouTube, forza.

A Bologna, invece, il set acustico si è aperto con “Country Boy” di Muddy Waters, che ha richiesto una terza chitarra, e cioè un’acustica Gibson di antica fattura. Ne è derivato un suono morbido, caldo, avvolgente. Le corde, morbidissime da quello che si è visto, sono state suonate come se si stesse prendendo della farina con la punta delle dita, o del riso per mondarlo. Clapton è stato leggero, leggiadro, quasi stesse accarezzando quelle sei corde. Ne è derivata un’esecuzione che è arrivata direttamente dentro di noi, morbida così come era stata appena suonata da Clapton. Magia che ha trasformato il suono in carezza. Peccato non aver portato questa situazione a Milano. Ecco, tre chitarre e due pedali, semplici, per 3 ore e 32 minuti di concerto. Niente di più.

Altra cosa particolare. Le sue chitarre venivano toccate e spostate solo da una persona. Capello lungo, brizzolato – biondo. Nelle pause era immobile, alla sinistra di Clapton, e non toglieva gli occhi dalle sue mani. Nel cambio, accordava e riportava la chitarra sul palco. Tutto questo accadeva a metà del brano che Clapton stava eseguendo.

Altra particolarità. Clapton non ha mai, mai, in tutte e due le serate, toccato le chiavi. Non ha mai, mai, accordato la chitarra. Non ha mai, mai, toccato una sola corda perché fuori posto. Riassumendo: l’uomo al suo fianco è un mago, nel senso classico del termine, e cioè colui che conosce le leggi dei materiali e della materia. E Clapton è lo stregone che, una volta che ha nelle sue mani la materia, la trasforma rispettandola. Le sette notte diventano musica. Non gli serve altro che le sue dita. Non servono mille chitarre. Non serve cambiare corde e accordatura per ogni canzone. Bastano quelle sei corde, se le sai usare bene, d’altronde. Si può dire in modo poetico. A quelle corde serve chiedere il permesso di esser suonate. E quel suo tocco morbido, marchio di fabbrica di Clapton, è la garanzia che si offre a queste corde. Un procedere slow che ha però la capacità di snocciolare note, scale, soli e giochi sulla tastiera, dall’alto al basso, come un commesso viaggiatore. Clapton dunque ha saputo conquistarsi il rispetto della materia, e questa non si ribella al suo suonare.

Le canzoni. Sedici in totale a Bologna, quindici a Milano. Non una di più non una di meno. Due sole variazione. A Bologna, prima sera, ha aperto il set acustico con “Country Boy” di Muddy Waters. Le cronache attestano (sito ufficiale di Clapton) che nella seconda serata è stata eseguita “Honey Bee” sempre di Waters, mentre a Milano ha suonato “Driftin’ Blues” di Johnny Moore’s Three Blazers. In questo caso non è servita la Gibson dunque, ma è bastata la Martin. Altre variazioni milanesi sono state l’asportazione chirurgica di “After Midnight”, e nel bis finale la presenza sul palco di Robben Ford, che ha aperto i concerti italiani. E così la sua sei corde si è unita a quella di Clapton, per il gran finale. Non va dimenticato che sul palco, al fianco di Clapton, c’era anche un buon mancino, e cioè Doyle Bramhall. A Bologna e a Milano (e nella seconda data bolognese) gli show si sono aperti con “Tearing Us Apart”. La cosa che subito stonava è che Clapton faceva la seconda chitarra, mentre Bramhall la prima. Devo dire che ho trovato molto carino questo giochetto destabilizzante. Credo però, con meno poesia, che servisse solo per scaldare le dita del Nostro 77enne bluesman. Nulla di più. Perché già nel secondo brano, e cioè “Key to the Highway”, le cose cambiano e la chitarra che domina è quella di Clapton.

Suono e band. Perfetti a Milano, davvero. Impeccabile il sound, il ritmo, la distribuzione di ruoli e suoni. Tutto è stato equilibrato, perfetto, e calibrato come si deve. A Bologna, invece, qualcosa non funzionava nella voce che, su alcuni brani, non arrivava. Ne fa le spese, in terra bolognese, “I Shot the Sheriff” dove manca la voce di Clapton in molte parti, come d’altronde per il grande classico “After Midnight”. Meno però del brano precedente, questo va detto. Inoltre, non sempre gli strumenti erano calibrati. Spesso il basso sovrastava, come la batteria d’altronde. Ma sono davvero piccole cose. A Milano, invece, tutto cambia, e lo percepisce il pubblico, ma anche i musicisti sul palco. Ed ecco quel quid che, pur non variando, se non di qualche secondo, trasforma lo show di Milano nella perfezione assoluta.

Caldo e freddo. A Bologna alla scomodità dei seggiolini si deve aggiungere un caldo infernale. A Milano invece si respira meglio. Tuttavia lo show può apparire freddo, sia a Bologna che a Milano. Ora, io la vedo così. Clapton è entrato sul palco, dalla sua sinistra, salutando come se fosse sceso da quel palco la sera prima. E invece erano anni che non veniva a suonare in Italia. Questi tre concerti sono stati rimandati due volte. E lui arriva così, come se fosse sempre stato lì dietro. Si sente a casa insomma, ed è bellissimo.

Indossa, a Bologna e a Milano, lo stesso outfit: scarpe bianche, con suola morbida; pantaloni e camicia blu, con righe date da tonalità di blu leggermente più chiare. Sopra ha un panciotto, con una collana. Lo dico così come l’ho pensata: sembrava un’orchestrale giunto all’evento, e che in camerino si era tolto la giacca prima dell’esecuzione, ed è arrivato sul palco a suonare. Fine. Routine? Non credo. Grande professionalità semmai, cosa che si è persa. Rispetto dunque per il pubblico pagante. Dopo due rimandi serve musica, musica, e non altro. E Clapton non si è sottratto. Certo, suonare così, con questa calma, precisione e pulizia, sembra poco faticoso. Potrebbe andare avanti per ore, vien da pensare. In realtà è uno sforzo enorme di concentrazione, perché tutto deve funzionare in modo impeccabile. E solo così, infatti, può funzionare. Poi, alla fine, dopo i saluti, me lo vedo rimettersi la giacca, salutare i musici e andarsene. Da vero bluesman.

Variazioni. Poche dicevo, davvero poche. Nuance, semmai. Sfumature, ma che rendono migliore il prodotto finale. Un pò come nel gelato: un conto è il gusto amalgamato, altra faccenda il variegato. Ed ecco che Clapton non fa che variegare più che amalgamare. “Tears in Heaven” a Bologna è da manuale; a Milano sa di reggae; “Layla” è perfetta al di qua e al di la del Po; “River of Tears” vede aggiunta una piccola intro, poche note a Milano, ma tanto basta; “The Sky Is Crying” è pura energia rock a Milano, come d’altronde “Cocaine” che, però, strappa applausi e cori maggiori a Bologna; i Procol Harum, con “A Whiter Shade of Pale” non mancano neppure a Milano, citati con tastiere e organo da Paul Carrack. Dove? A voi scoprirlo con i video su YouTube. Piccola caccia al tesoro, eh!

Non resta che salutare. Come Clapton.

Il concerto è finito. Si era aperto come uno show degli anni ’70. Luci accese che hanno accolto la band, formata da sette elementi, con una sezione ritmica eccellente (Sonny Emory alla batteria e Nathan East al basso). Le luci resteranno accese per tutto lo show. Ai lati due semplicissimi maxischermo con retinature e pochi primi piani. Solo campi larghi. Sembrava di essere davvero negli anni ’70, agli albori dei grandi concerti. Si arriva al finale, e non si può far altro che alzarsi a battere le mani. Lui saluta, torna in camerino. Si dovrà mettere la giacca. Da bravo orchestrale.

In tutto questo, vorrei che fosse chiara una cosa: qui, in queste due serate, non si è affatto ascoltato un concerto del tutto simile a un cd. No, per nulla. Qui si è ascoltata la musica nel suo farsi, fra le mani e le corde di un musicista che è accreditato dai Beatles, ha suonato con Hendrix, ha trasformato ogni sua band in una grande band che ha fatto un pezzo di storia della musica, e infine è ancora qui davanti a noi, con i sui 77 anni, a dettare il ritmo. Non serve che lui dica altro, bastano quelle sue sei corde, e basta davvero aver avuto la fortuna di poterle sentire sotto i suoi polpastrelli. Capite allora perché basta solo un ciao, e non serve nient’altro?.

Lunga vita, e arrivederci Eric. Non fare lo scherzo di non tornare più…

Articolo di Luca Cremonesi

Setlist Bologna 9/10/2022

1. Tearing Us Apart
2. Key To The Highway
3. Hoochie Coochie Man
4. River Of Tears
5. I Shot The Sheriff
6. Country Boy
7. After Midnight
8. Nobody Knows You When You’re Down And Out
9. Layla
10. Tears In Heaven
11. Badge
12. Wonderful Tonight
13. Crossroads
14. The Sky Is Crying
15. Cocaine
16.High Time We Went

Setlist Milano 12/10/2022

1. Tearing Us Apart
2. Key To The Highway
3. Hoochie Coochie Man
4. River Of Tears
5. I Shot The Sheriff
6. Driftin’
7. Nobody Knows You When You’re Down And out
8. Layla
9. Tears In Heaven
10. Badge
11. Wonderful Tonight
12. Crossroads
13. The Sky Is Crying
14. Cocaine
15.High Time We Went

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