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Ida Nielsen & The Funkbots live Milano

Virtuosa del basso ci ricorda che il corpo umano non è fatto per resistere al ritmo del Funk

Nel Jazz club milanese che porta l’insegna Blue Note, famosa nel mondo, si è esibita il 14 aprile accompagnata dalla band The Funkbots Ida Nielsen, artista che se ha bisogno di presentazioni, ecco quella di Prince Rogers Nelson AKA Prince AKA in qualunque modo il compianto musicista volesse essere chiamato: Il suo nome è Ida e il basso se lo mangia. Dopo averla scoperta e presa al suo seguito, il creatore del Minneapolis Sound ne ha sostenuto la carriera se di sostegno aveva bisogno, visto che superati da un po’ i 40 “Bassida” non accenna a lesinare energie.

Il Blue Note, se qualche hard-core rocker fra i nostri lettori non ci ha mai messo piede, è uno spazioso ed elegante club in stile americano con i tavoli e una galleria superiore che si trova nel cuore del quartiere Isola, uno dei più fervidi di vita notturna della metropoli del Nord, e non ha in cartellone solo Jazz ma anche Blues, musica d’autore di qualità e stand up comedy, oltre ad essere spazio per eventi e meeting aziendali.

Su un palco non molto grande, e in buona parte occupato dalla “torre” di casse Eich della titolare, il rapper Kuku Agami, il chitarrista e vocalist Oliver Engqvist e il batterista David Haynes hanno martellato senza pause per un set non lunghissimo (la band si è esibita poi in un secondo set alle 22.30) di puro Funk di marca Minneapolisiana… Minneapoletana… di Minneapolis.

La domanda che mi è sorta spontanea è stata Già, ma che fine aveva fatto il Funk e perché non lo ascolto tutti i giorni? Perché se questo genere continua a esistere come tale, questa artista ne è sicuramente uno degli alfieri attuali. La band si presentava all’apparenza curiosamente divisa etnicamente: sfoggiando giacche militari ussare e occhiali scuri, i due “nordici”, mentre i due neri indossavano più comode t-shirt.

L’impasto musicale invece non poteva essere più coeso malgrado la difficoltà tecnica di esecuzione.
Ida, che è “il boss” e per sua stessa ammissione si prende più spazio creando un suono basato sul basso conscia del fatto che nel sound lineare di quel genere, un solo strumento alla volta deve esprimersi con più libertà, mentre il resto del gruppo sostiene il “groove” volutamente ossessivo (lunghe parti dei brani si svolgono su un solo accordo). Infatti indulge fin dall’inizio in un ad libitum solista prima di lanciarsi in una catena di brani sostenuti dal pubblico, incitato fin da subito a battere le mani, senza grandi resistenze visto il carattere primordiale delle pulsazioni che sostengono questo genere di musica.

Fra i primi brani durante le presentazioni Ida che ribattezzerei Tim-Ida perché ho notato a tratti un insolito e quasi tenero imbarazzo nel parlare sul palco dichiara la missione della band: mantenere vivo il Funk. Nessuna timidezza dimostra invece come vocalist, sostenendo la maggior parte delle parti soliste con una decisa voce da soprano pop, anche se divide il dovere con il rapper Kuku e a volte anche con il chitarrista Oliver. Per inciso, cantando mentre esegue parti di basso che per la maggioranza dei bassisti sarebbero difficili da eseguire anche concentrandosi solo su quello.

Durante “Hey Sailor” ci chiede di accompagnare il ritornello fischiando, e il coinvolgimento del pubblico è sempre alto, mentre i brani si susseguono serrati sempre con Ida che si avventura in strofe rap, e sempre con grande presenza di parti di basso e frasi quasi sempre martellate in stile slap, anche se la danese spesso usa ed è maestra anche nella tecnica delle “due dita”, senza che al chitarrista venga dato grande spazio solista; fino a “Heart of Stone” durante la quale a Oliver è concesso di sfogarsi esibendo il suono tagliente della sua Fender in un paio di assoli selvaggi.

Ida si scatena, suonando a due mani sulla tastiera e chiamando il pubblico a rispondere ai suoi lick di basso. Un brano da lei stessa definito completamente unfunky interrompe la cavalcata, “Scream”, in cui Ida passa alla tastiera ed è accompagnata solo dalla chitarra in questo brano emotivamente coinvolgente e di atmosfera.

Segue un momento dedicato ai comprimari: il “Capitano” Haynes si sposta una workstation “finger drumming” esibendo lo stesso stile con le dita che ha dimostrato con le bacchette. Al povero Kuku invece vengono dedicati dei complimenti come grande freestyler ma ci viene annunciato con molta autoironia che dato il set dal tempo ridotto, il momento “Kuku’s flavour of the day” di freestyle viene tagliato per non togliere tempo… al basso. “She’s the boss,” commenta Kuku.

Ritornano la batteria e il ritmo aggressivo con lo slap potente su “Internet Crush”, canzone su esperienze di relazioni online di cui nessuno in questa band sa niente. Senza interruzione un duetto di basso e rap con Kuku introduce “Funkinthetrunk”, altro pezzo ipnotico che prelude a un momento intenso del concerto: il tributo al mentore Prince che inizia con “Purple Interlude” e prosegue con “1999” e “We Came 2 Get Funky”.

L’ultimo brano prima dell’uscita di scena è “Go Play with Urself”, dopo il quale però Ida torna quasi subito, sola, sul palco per lanciarsi in un assolo che è un manuale di note stoppate e slap con un po’ di scat vocale, e richiamare poi gli altri sul palco per il pezzo conclusivo about peace and love “Free Ur Mind” dal sapore reggae.

Una serata fin troppo breve per chi ama ritmo, gioia di suonare e ammira la tecnica di un gruppo in cui la indiscussa leadership del basso tiene in ordine tutta l’esecuzione ma gli spazi per melodia, ritornelli accattivanti, assoli graffianti e rime sincopate non mancano. Questa bassista danese, vista dal vivo, ti fa chiedere perché non hai più Funk nella tua playlist.

Articolo di Nicola Rovetta, foto di Francesca Cecconi

Set list Ida Nielsen & The Funkbots Milano 14 aprile 2023

I Really Think Ur Cute
Throwback
Hey Sailor
Disco Dislocation
F.U.Nkwhy
Heart of Stone
You Can’t Fake the Funk
Scream
Different Person
Internet Crush
Funk in the Trunk
Purple Interlude
1999
We came 2 get funky
Go Play Urself
Free Ur Mind

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