Seconda parte del tour di addio (sarà vero?) di Roger Waters che, dopo le tappe milanesi di marzo, sbarca a Bologna con tre repliche del suo “This is not a drill – Farewell Tour”. Noi abbiamo partecipato allo show del 28 aprile 2023.
Il concerto perfetto. Questo live report potrebbe finire qui. Senza nulla da aggiungere. Un concerto impeccabile, sotto tutti i punti di vista sul fronte dello show. Audio perfetto; apparato video migliore del tour dedicato a “The Wall”, ed era davvero un’impresa fare di più. Scaletta con i grandi classici del periodo Pink Floyd più caratterizzato dal suo comando. Potete fermarvi qua. Se, invece, vi interessa anche un’altra lettura di questo tour, non dovete far altro che proseguire.
Da qui vorrei (ri)partire per cercare di parlare di un concerto, e dunque di uno spettacolo (non dimentichiamolo mai) che, pur se perfetto sotto tutti gli aspetti formali, di certo non lo è stato per quanto riguarda la carriera di Waters. O meglio, per quello che il bassista va dicendo in questi ultimi anni. Non sul fronte delle sue idee, e cioè quelle delle prese di posizione politiche, sia chiaro, che sinceramente fanno solo riflettere su vari fronti, da quello della storia appena trascorsa fino ovviamente al presente; ma per quanto riguarda l’infinita querelle con gli altri membri della sua ex band.
Diciamolo subito in modo chiaro, dato che questo ultimo tour si apre proprio con il gran rifiuto. Le luci si spengono e lo show parte, a tutto volume, con una qualità audio che lascia attoniti, con “Comfortably Numb”, ma nella versione che, dal 2 giugno, sarà in vendita nel nuovo “The Lockdown Sessions”. Brano già uscito come singolo alcuni mesi fa, e che ha già fatto discutere circolando in radio. Dunque, tutti conosciamo e sappiamo di cosa si tratta. Non facciamo finta di nulla.
Ora, e spero nell’onestà dei lettori e delle lettrici, oltre che a quella di ascoltatori e ascoltatrici, c’è chi ha messo in croce gli U2, in questo periodo, per molto meno di quello che ha fatto Waters. Quindi la domanda è legittima: qui, e cioè in questa operazione, invece va bene? Basta, dunque togliere la chitarra del nemico Gilmour, e soprattutto uno dei soli più famosi della storia del Rock, e si grida al capolavoro?
L’idea di Waters, così pare da quanto si è letto qua e là prima della partenza del tour, sarebbe poi quella di ri-registrare il tutto, non solo togliendo la voce di Gilmour (sostituita da un coretto modello Zecchino d’oro), ma levando pure la sua chitarra. Questa la grande idea di Waters. Non so, io ritengo molto più onesto Robert Plant che i Led Zeppelin non li vuole più rimettere in circolo, ma le loro canzoni non le disprezza. Anzi, le nobilita in ogni suo tour (una o due al massimo, non di più). Se ne volete un esempio, ascoltate “Black Dog” versione blues made in Mississipi, e poi fatemi sapere (live Rio de Janeiro, sul web la trovate).
Per tanti fan, dunque, Waters resta un dio, quando invece si comporta a tutti gli effetti da comune mortale rancoroso. Per fortuna, almeno sul fronte del live, la questione si esaurisce lì, e cioè a questa esecuzione – registrata, manco suonata dal vivo – del grande classico presente in “The Wall”. Del secondo problema di questo show, poi, parleremo più avanti.
Perché, sia chiaro, il resto è tutto davvero perfezione meravigliosa, oltre alla grande armonia fra video e musica. Aggiungerei, grazia divina vera, sul modello di quello sforzo che Dante compie per descrivere il Paradiso, il regno della luce. Lo show, di fatto, è la summa del Waters pensiero, la Candida Rosa delle sue idee e della sua musica. Lui stesso ce lo fa capire fin da subito, dopo il gran rifiuto, quando sale dalla scaletta puntando il dito, e aprendo lo spettacolo con i brani più iconici di “The Wall”. Poi il viaggio prosegue a ritroso, fino a “The Dark Side of The Moon”, passando per “Wish You Were Here” e “Animals”, con un breve accenno (peccato) anche a “The Final Cut”, e qualcosa del Waters solista. Ciò che rende davvero unico questo spettacolo è la perfetta fusione fra immagini e musica, il tutto su un palco a forma di croce, posizionato nel mezzo dei palazzetti, e che permette al Nostro di muoversi a 360°. Il resto è solo pura bellezza per una musica, quella di Waters, che è sempre stata politica, nel senso nobile del termine, e che ha saputo prendere posizione nel mondo. Contro le guerre. Contro i totalitarismi. Contro le angherie. Quindi, ha ragione Waters quando, nel conto alla rovescia che porta allo spegnimento delle luci, ricorda che se qualcuno non è d’accordo con le mie idee, se ne vada a farsi fot… e si rechi al bar, all’esterno.
Il campionario delle denunce del musicista è lungo, articolato e, spesso, un poco superficiale (ma è pur sempre uno spettacolo). Tuttavia, appunto, sono solo canzonette giusto? Così si diceva un tempo, quando cioè si cercava di esorcizzare la capacità della musica di lanciare messaggi, di essere parte di un sistema di critica sociale, culturale e civile. Waters, a questa missione della musica rock, non ha mai abdicato, anzi. I suoi ultimi tre tour (“The Wall”, “Us + Them”, e questo “Farewell Tour”) sono stati tre serie di concerti con messaggi politici forti, che hanno anche fatto storcere bocca e naso a molti benpensanti. Lui, però, è andato dritto per la sua strada, e non si è mai fatto condizionare, neppure dalla sua ex band che, negli anni ’80, ha deciso di lasciare senza pensarci due volte. In un’epoca dove, tolti i Beatles, lasciarsi e mollare tutto non era prassi quotidiana.
Il blocco iniziale, dunque, con grande teatralità, non può che partire, anzi, decollare, con “The Happiest Days of Our Lives”, e cioè il famoso elicottero di “The Wall”. Waters sale, vestito di nero, sul palco, mentre basso e batteria, sparati, fanno da eco alle pale del mezzo volante, stilizzato in un faro che si muove a cerchio nel palazzetto. A seguire “Another Brick in the Wall, Part 2 e Part 3”. Incipit da manuale, insomma. Rock allo stato puro. Poi, terminato questo trittico, una delle pochissime incursioni nei lavori da solista di Waters, e cioè “The Powers That Be”, direttamente da “Radio Kaos” (1987). Un pezzo live che ad oggi, per ascoltarlo in questa versione, serviva scavare nella selva oscura – e non è una metafora – dei bootleg. Altra incursione nella discografia del Waters solista è “The Bravery of Being Out of Range”, dal suo vero capolavoro post-Pink Floyd, quell’“Amused to Death” del 1992. Questo è e resta, comunque, il momento più intimo dello show. Uno spettacolo nello spettacolo.
Perdonatemi dunque, ma il Nostro non poteva eseguire l’album del 1992, per una volta, tutto in maniera integrale? Dai, su, questa cosa ha dell’incredibile in un’epoca dove anche i piccoli gruppi punk dello Stivale si mettono a riproporre, live, album in versione integrale, traccia per traccia. Alla fine, Waters dosa con il contagocce quanto fatto da solista, 6 brani in tutto, per una scaletta di 24 canzoni. Senza scordare, poi, che manca completamente “The Final Cut” – se non per una sterile traccia -, album della rottura; quel disco (bellissimo) che Waters rivendica come suo, suonato però dai Pink Floyd. Credo che questo basti per fare la tara al nostro umano, troppo umano, Roger Waters.
Così, per chiudere questo passaggio, il musicista inglese diventa poco credibile nelle sue, alla fin fine, sterili polemiche verso i colleghi. Perché il concerto è, di fatto, una set list dei Pink Floyd, fatta e finita. Lo show propone, infatti, pezzi come “Have a Cigar”, “Shine On You Crazy Diamond” (parts VI-VII, V, che si sono sentite raramente live), e il grande classico “Wish you were here”, dall’omonimo album del 1975. Anche qui va riconosciuta la tenerezza del momento, con un omaggio, vero e sentito, a Sud Barrett. La prima parte del concerto si chiude con la bellissima “Sheep”, con tanto di pecora gonfiabile che vola fra il pubblico (non il solito maiale, che apparirà nella ripresa però, sulle note di “In the flesh?”). Se è pur vero che, nella critica di Waters, rischiamo di essere trasformati tutti in gregge di pecore, allo stesso tempo lo diventiamo se ci mettiamo a disquisire del dualismo con Gilmour. Ci trasformiamo anche noi in povere pecore che seguono il buon (forse?) pastore Roger Waters.
A conti fatti, Gilmour, con tutti i suoi difetti (è umano, non è divino infatti), nei suoi tour da solista, le sue canzoni, belle o brutte che siano, le propone. Mason gira da alcuni anni con una super band, e si occupa di far rivivere, senza polemiche, i Pink Floyd degli albori, quelli con Syd Barrett. Senza per questo creare ulteriore rancore. Waters, invece, no, e così va a centellinare proprio sulla sua carriera da solista (iniziata nel 1982). Mi ripeto, ma vorrei che fosse chiaro, di album belli, da solista, Waters ne ha fatti, e non è tutto da buttare (oltre al già citato “Amused to Death”, vorrei ricordare l’ultimo “Is This The Life We Really Want?” del 2017). Questo, come anticipato, è il secondo appunto che si può muovere ad uno spettacolo perfetto.
Ritorniamo nello show. Dopo “Sheep” c’è pausa, e si riparte con i martelli che marciano modello Terzo Reich, sulle note di “In the Flesh” e, a seguire, di “Run Like Hell”, sempre da “The Wall”. Fatemelo dire, quanto è bella questa scenografia per video, musica, messa in scena e presentazione. Il tutto, ovviamente, mutuato, dal tour di qualche anno fa dedicato al capolavoro del 1979. Poi spazio, ancora in modo parco e contenuto, al Waters solista con due brani presi da “Is This the Life We Really Want?”, e cioè “Déjà Vu”, con tanto di andata e poi ripresa, e a seguire il brano che dà il titolo all’album. A questo punto, poi, servirà attendere il finale per riascoltare la ripresa della nuova canzone, “The bar”, scritta in sostegno di Steven Donziger, che è stata proposta già nella prima parte, con un omaggio video ai Nativi davvero toccante, Nel finale viene risuonata (senza orpelli), con la band attorno al pianoforte, per un bel brindisi che chiude, tutti insieme, questa serata prima delle note di “Outside the Wall”, sulle quali Roger saluta il pubblico.
Nel mezzo, ovviamente, “The Dark Side of The Moon”, con una scenografia mastodontica che riproduce il triangolo più famoso del rock, per tutta la lunghezza del palco, grazie a luci laser blu-azzurre. Qui scorre davanti ai nostri occhi la storia, quella che, piaccia o meno al Nostro, Waters ha fatto con gli altri componenti della band. Quindi, data la perfezione di questo show, bando alle ciance e alle polemiche, dato che pure il singolo del 2023 non è stato neppure inserito nel nuovo album. “The Lockdown Session”, già disponibile sulle piattaforme, è un lavoro dove al 90% Waters ricanta, ancora una volta, i brani dei Pink Floyd. In versione svuotata dalla presenza di Gilmour.
Davvero, dato che siamo il popolo di Bartali e Coppi, almeno questa volta molliamo gli ormeggi, e lasciamo a lui, e fra di loro, le polemiche. Godiamoci questo spettacolo perfetto, senza far nient’altro che ascoltare questa bella musica, creata dai Pink Floyd, e che i tre superstiti, in varie salse, stanno ancora portando in giro. Perché, prima o poi, purtroppo, resteranno solo le cover band… E sarà pure peggio.
Articolo di Luca Cremonesi, foto di Moris Dallini
Set list Roger Waters 28 aprile 2023
- Comfortably Numb
- The Happiest Days of Our Lives
- Another Brick in the Wall, Part 2
- Another Brick in the Wall, Part 3
- The Powers That Be
- The Bravery of Being Out of Range
- The Bar
- Have a Cigar
- Wish You Were Here
- Shine On You Crazy Diamond (Parts VI-VII, V)
- Sheep
- In the Flesh
- Run Like Hell
- Déjà Vu
- Déjà Vu (Reprise)
- Is This the Life We Really Want?
- Money
- Us and Them
- Any Colour You Like
- Brain Damage
- Eclipse
- Two Suns in the Sunset
- The Bar (Reprise)
- Outside the Wall