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Consorzio ZdB intervista

Scopriamo l’etichetta insieme al co-fondatore Andrea Pettinelli

È difficile non farsi contaminare dallo star system nel 2023, lo è dal momento in cui si decide di produrre musica, all’interno di un contesto in cui il sistema musicale ti vuole omologato e standardizzato alla logica di mercato. Il Consorzio ZdB non solo ci ha provato ma c’è riuscito, diventando un punto di riferimento sia come etichetta ma soprattutto come polo aggregativo e culturale. Nasce da radici profonde, con ideali radicati e si sviluppa negli anni riuscendo a produrre musica di grande qualità artistica mantenendo quell’integrità, culturale e professionale che il mondo della musica ha bisogno, oggi più che mai. In questa intervista Andrea Pettinelli, uno dei soci fondatori del Consorzio, ci racconta di come il mondo della musica è cambiato, si è evoluto e di quanto sia complicato, di questi tempi, fare musica rimanendo coerenti con i propri principi.

Quando si parla di etichette indipendenti, bisogna partire sempre dalla storia. Quindi, come è nato il Consorzio ZdB?

Nasce prima come Libero Coordinamento Nazionale di gruppi emergenti, eravamo tutti ventenni. A ottobre del 2005, facemmo nascere il consorzio ZdB e quindi ci trasformammo in una società vera e propria, con una ragione sociale. I soci fondatori erano alcuni rappresentanti di questi gruppi emergenti, tra questi gruppi fondatori c’era lo Zoo di Berlino, che era già una band e che aveva ricoperto il ruolo di coordinatore. Decidemmo di utilizzare ZdB, l’acronimo del gruppo lo Zoo di Berlino, come marchio distintivo di questo consorzio. Pensammo alla forma consortile perché il consorzio prevede l’associazione di organismi formali o informali, come possono essere delle band, che erano già costituiti. Quindi non proprio una cooperativa dove l’associazione avviene con persone fisiche, ma una cooperazione fatta da organismi già costituiti. Queste sono le basi fondanti. Da lì cominciamo tutta una serie di operazioni promozionali. Parlare adesso di operazione promozionale fa pensare ai social, all’attivazione del contatto diretto con radio, TV oppure giornalisti, giornaliste. Invece no, per noi la comunicazione era un modello di guerriglia, ovvero fare delle azioni dimostrative sul campo, sul territorio, abbiamo macinato centinaia di migliaia di chilometri in tutta Italia organizzando dei festival. Attraverso questo tipo di esperienze abbiamo imparato un mestiere, perché ci siamo misurati con le autorizzazioni per l’occupazione del solo pubblico, la SIAE, i sistemi di sicurezza, e mentre facevamo questo, continuavamo a studiare all’università, in conservatorio, e in più io già lavoravo con alcuni musicisti professionisti, esempio con il Banco del Mutuo Soccorso, in particolar modo con Vittorio Nocenzi, di cui ero allievo. Dopo aver fatto una biennale di corso con lui, sono stato promosso a suo collaboratore stretto, e quindi mi sono occupato dalla produzione artistica, agli arrangiamenti, alla pre produzione di un album, fino alla produzione di editing, mixing e mastering, fino alla post produzione, curando anche tutta quella che era l’amministrazione e il management dell’etichetta di Vittorio. Ho lavorato con lui sette anni, coinvolgendo poi gli altri membri del gruppo ed i membri dei gruppi che componevano il vecchio coordinamento nazionale.

Nel frattempo lo Zoo di Berlino cominciava a muovere i suoi primi passi, con le prime demo, poi con il primo disco ufficiale, tant’è che la copertina del nostro primo album, sarà fatta proprio da Dario Fo, che conosceva bene il nostro percorso. Ci rendemmo conto che il curriculum della band, il curriculum mio personale e di altri soci che già lavoravamo all’interno della produzione musicale poteva essere benissimo una struttura di servizi che potevamo condividere anche con altri. Inizialmente con forma militante di condivisione, poi a causa di alcune “mazzate” sia emotive che economiche abbiamo pensato di affrontare la cosa in maniera più matura e direi anche più professionale. Detta così può sembrare una cosa di qualità, ma intimamente, quando trasformo quell’approccio militante in un servizio professionale, lo vivo più come una sconfitta che come un salto di qualità, perché avendo queste basi idealistiche molto forti mi sarebbe piaciuto vivere in un mondo più collettivo anziché diviso a compartimentazioni dove c’è una struttura che eroga servizi e c’è un cliente che paga per le tue prestazioni. Passando attraverso questa esperienza di ingenua militanza e sorretti da tanta passione ecco che il nostro curriculum, le nostre relazioni e contatti diventano una filiera produttiva che mettiamo a disposizione di un’altra generazione, di altri artisti, sia professionisti che emergenti, tant’è che tutte quante le nostre produzioni hanno messo insieme sempre talenti emergenti con i grandi maestri della musica.

Mentre tessevamo queste relazioni umane e professionali sia con gli artisti emergenti che con gli artisti professionisti abbiamo costruito anche degli impianti di produzione, quindi ci siamo dotati di uno studio di registrazione professionale con quattro sale di ripresa dove facciamo anche produzione audio e adesso anche video. Attraverso il know-how che abbiamo acquisito in questi 15 anni di operatività anche le major, in particolar modo Sony e Warner, ci hanno commissionato diversi lavori per quanto riguarda il catalogo degli Area e della Cramps Records.

Ora siamo in tournée con gli Area, abbiamo prodotto questo tour, lo stiamo documentando, registrando su multi traccia, abbiamo infatti anche uno studio mobile di registrazione, sia audio che video. Questo tour nazionale è partito da Milano in occasione della notte della Cramps e via via abbiamo agganciato anche altri artisti all’interno della nostra etichetta. Ecco come siamo arrivati ad oggi che più che un’etichetta standard, anche se lo siamo, perché siamo iscritti come editori, facciamo distribuzione sia fisica che digitale, ci occupiamo tutto tra cui la parte amministrativa, quindi abbiamo anche un codice ateco specifico proprio per quanto riguarda edizioni in ambito musicale, discografico, cinema, radio, televisione.

Nel sito io ho visto che avete anche il piccolo museo del suono, che cos’è?

È il nostro studio di registrazione. Il nostro studio registra su hard disk recording, quindi in digitale, ma registra anche su un nastro analogico e su diversi supporti multi traccia. Il nostro studio è corredato da tutta una serie di tecnologie di registrazione sonora e produzione sonora come sintetizzatori, ad esempio, dagli anni ‘60 fino ad oggi, abbiamo anche degli Hammond degli anni ‘60, un piano elettrico metà anni ‘60, diversi amplificatori anni ‘60 con anche degli effetti artigianali, sintetizzatori Minimoog, microfoni broadcast anni ‘50. Tutto funzionante, anche gli outboard, che sono processori di dinamica e di effetto fisici, non i cosiddetti plug-in.

Il piccolo museo del suono è visitabile?

Sì, è visitabile. Chi è interessato ci contatta e può passare, possiamo dare anche delle indicazioni, tant’è che diversi studenti sono passati da noi a preparare delle tesi di laurea, sia per quanto riguarda la tecnologia audio di cui disponiamo, che per quanto riguarda il catalogo degli artisti, perché diversi sono stati gli studenti che hanno preparato delle tesi su, ad esempio, Demetrio Stratos, sugli Area, sul Rovescio della Medaglia.

Volevo anche fare un passaggio su una cosa che mi avevi scritto tempo fa, e che mi ha colpito particolarmente, che dice: non ci rendevamo conto che rischiavamo, come è successo poi, di confonderci nella mischia degli emergenti e di essere oscurati, anche per le scelte radicali che abbiamo fatto nella vita, come stile nel vivere, scelte musicali e culturali, oltre che politiche. Mi contestualizzi meglio questa frase?

In questa frase ci sono due ordini di questioni. La questione di incapacità interna di dedicarsi alla comunicazione e poi c’è l’aspetto più politico. Partendo dalla prima cosa, l’incapacità comunicativa, noi siamo allievi, discepoli, posso usare tranquillamente questo termine perché ce l’hanno sempre riconosciuto, di grandi maestri come Francesco Di Giacomo del Banco, Rodolfo Maltese del Banco, Vittorio e Gianni Nocenzi del Banco, oppure Fariselli degli Area, lo stesso Gianni Marocco, per non parlare di Dario Fo e Franca Rame. Venendo da quel tipo di formazione culturale, umana ancora prima e poi artistica, abbiamo pensato ingenuamente che bastasse fare bene il proprio lavoro, studiare, imparare, sapere scrivere, comporre, confezionare, produrre, redigere anche un buon comunicato stampa, e poi le cose si sarebbero mosse da sé, perché se la qualità del prodotto c’era, prima o poi questa cosa avrebbe premiato. Invece non ci rendevamo conto che il mondo stava cambiandolo velocemente con il passaggio epocale della comunicazione, dai social ai reality. I reality show, nati una ventina di anni fa, hanno diffuso nell’opinione pubblica l’idea che il pubblico possa entrare nell’intimità delle persone ed anche dell’artista. Da parte del pubblico c’è sempre stato questo desiderio di conoscere intimamente il produttore, ma prima c’erano degli schermi, degli elementi di distanza, dei filtri e quindi la figura dell’artista era sempre qualcosa di irraggiungibile, invece i reality abbattono questa cosa. Nel frattempo si sviluppano social network che permettono la connessione diretta con l’artista e la cosiddetta base fan e noi questo passaggio ce lo siamo persi, un po’, credo, anche per scarso desiderio. Mi rendo conto che, con i tempi di oggi, per produrre dei contenuti di qualità in 30 secondi in modo da fare arrivare subito l’informazione, devi essere bene esposto alla luce, devi essere telegenico, devi essere in forma, devi scandire bene le parole, fare un minimo di taglio, sistemare l’audio, è un lavoro. Quando l’abbiamo fatto ci rendevamo conto che passavamo intere giornate solo per produrre contenuti social e ci siamo domandati: chi scrive? chi suona? chi registra? chi produce? chi organizza? chi sta alla scrivania? Tra l’altro è un impegno economicamente oneroso per le ore che ci impieghi, per i consulenti di cui devi dotarti e non è affatto remunerativo. Quindi la difficoltà che noi abbiamo nel gestire, adesso, questo tipo di comunicazione sta in questi aspetti, la mancanza di tempo, la mancanza di risorse e poi anche una capacità a sapere stare sui social, perché devi essere anche una persona in qualche modo piacevole, che non significa essere per forza un bell’uomo o bella donna, bensì devi avere capacità affabulative, ci devi saper fare.

Ultimamente, la musica viene vista esclusivamente come mezzo di svago e non come strumento per portare cultura, cosa che invece per voi è una cosa importante, perché voi, di fatto, fate anche cultura.

Esatto, entriamo nella seconda parte della domanda, cioè l’aspetto politico, che abbiamo pagato. Dario Fo diceva sempre l’arte deve avere una morale, l’arte senza morale non è tale, e siccome avevamo questa affinità qui, abbiamo sempre approcciato alla produzione con questa attitudine, dove è vero che dobbiamo portare il lavoro a casa, dobbiamo pagarci da vivere, le bollette, pagare le tasse, gli stipendi, però non abbiamo mai seguito il mercato, perché se avessimo dovuto seguire il mercato un buon 60% delle nostre produzioni non le avremmo mai fatte. Quando selezioniamo un progetto, lo selezioniamo su base esplicitamente di interesse culturale, qualitativo, non pensiamo se possa avere mercato oppure no, certo lavoriamo duramente ogni giorno per cercare di posizionare il prodotto, per cercare di farlo viaggiare, anche perché poi anche il musicista di nicchia desidera comunque arrivare a un pubblico sempre più ampio. Assumendoci questo tipo di responsabilità, il senso del dovere ci porta a voler concretizzare queste aspettative, e non sempre si riesce anche per le scelte radicali, le politiche che abbiamo fatto. Abbiamo sempre affrontato temi anche di carattere politico, amministrativo, governativo, questo è il nostro approccio, però, anche la nostra stessa generazione, l’ha sempre visto un po’ come una roba vecchia, sorpassata, superata, tant’è infatti che c’è tutta una scena musicale che è completamente avulsa dalla partecipazione politica. Certo c’è qualcuno che parla della fluidità di genere, con sottofondo quel mondo legato al movimento LGBTQ, o sulle cause ambientali, però sempre in maniera molto soft, non con delle prese di posizione più incisive. Ovviamente questo ti rende agli occhi di alcuni un personaggio spinoso, non controllabile e quindi forse è meglio non integrarlo in certi contesti.

La generazione di adesso non è pigra, ma viene indottrinata all’interno di un determinato contesto che è completamente differente dal nostro. Sono cambiati i tempi, sono cambiati gli anni, è cambiato il modo di comunicare, forse è la nostra generazione che deve adattarsi ai modelli comunicativi dei giovani e non viceversa?

Io non so se sia del tutto corretto, ti faccio un esempio con la Trap.  Ho scoperto che la Trap nasce come fenomeno di sotto-cultura, Rap, Hip-Hop a Long Island, agli inizi degli anni zero. C’è un capo stipite della scena che si chiama Lil Peep, si chiamava, perché Lil Peep purtroppo è morto, come tutte quante le rock star. Lil Peep è morto per una overdose, non aiutato dai propri amici, in casa, perché era così strafatto, erano così strafatti che non si sono accorti che il loro, amico, che li aveva ospitati, stava perdendo la vita, quindi è una storia tragica. Siccome la storia di Lil Peep è una storia autentica, io quando lo sento mi emoziono alla stessa maniera di come quando sento Kurt Cobain, o quando sento Billy Corgan degli Smashing Pumpkins, o quando sento Fabrizio D’Andrè, o quando sento Zucchero, nel primo album, nel pezzo “Un piccolo aiuto”. Invece quando sento, certi trapper, tipo Achille Lauro, o Sfera Ebbasta, questa gente non mi dice niente. E perché non mi dice niente? Non per un problema di linguaggio, ma per un problema di mancanza oggettiva di contenuti.

Credo che sia proprio la mancanza di contenuti che non mi fa gradire un certo tipo di proposta musicale. Ad esempio, io rispetto tantissimo i Maneskin, li ritengo un fenomeno importantissimo anche per l’industria musicale italiana. Per me è un grande riscatto perché questi ragazzi in piena epoca Trap e Cantautorato, cosiddetto Hip Hop, Indie, vanno dritti e puri per il Rock and Roll. È chiaro che quando li ascolto non mi fanno innamorare, ma sono convinto che se quel determinato brano l’avessero fatto i Muse, i quarantenni come noi avrebbero chiamato al miracolo, però siccome lo fanno i Maneskin allora non va bene.

Per finire la nostra chiacchierata, se tu dovessi darmi una parola, solo una, per descrivere il Consorzio ZdB, quale sarebbe?

Libertà.

Articolo di Silvia Ravenda

Sito web Consorzio ZdB https://www.consorziozdb.it/

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