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Counting Crows video-intervista

Band iconica: vent’anni di carriera di cui gran parte passata sui palchi, sette album in studio vendendo più di 20 milioni di copie

Counting Corws ph_MarkSeliger

I Counting Crows tornano finalmente live in Italia dopo cinque anni per presentare “Butter Miracle: Suite One” (qui la nostra recensione): saranno il 2 Ottobre a Padova, Gran Teatro Geox, il 4 ottobre a Roma, Auditorium Parco della Musica, il 6 ottobre a Firenze, Tuscany Hall, il 7 ottobre a Milano, Teatro Dal Verme.

Parliamo di una band iconica: vent’anni di carriera di cui gran parte passata sui palchi, hanno pubblicato sette album in studio, vendendo complessivamente più di 20 milioni di copie in tutto il mondo. Band speciale anche nella line-up, da sempre forgiata, guidata e trascinata dal loro frontman Adam Duritz, che abbiamo intervistato (noi a Firenze, lui a New York) durante gli ultimi preparativi del tour mondiale, che parte ora dagli Stati Uniti per poi arrivare in Europa per 26 date, tra cui le tre tappe italiane.

Intervista Counting Crows

Erano ben sette anni che la band non rilasciava un nuovo album e “Butter Miracle Suite One”è uscito durante una pandemia mondiale, per di più dopo essere stato registrato nel bel mezzo della campagna inglese. Puoi spiegarci come avete messo insieme il disco in questa situazione così difficile?

La band era in perfetta forma perché siamo stati in tour per tutto il 2018 e abbiamo fatto un po’ di date anche nel 2019. Al tempo ero piuttosto esaurito dall’idea di dover far uscire un nuovo disco, non avevamo le idee chiare né capivamo di cosa avessimo bisogno. Avevo adorato il nostro precedente album “Somewhere Under Wonderland”, ma non aveva avuto un grande successo e questo mi aveva piuttosto scoraggiato. Far uscire un disco è un processo molto impegnativo che ti coinvolge totalmente, devi avere a che fare con la stampa ad esempio, non è come andare in tour con i tuoi amici. Per un certo periodo non avevo nemmeno provato a scrivere più nulla di nuovo, anzi cercavo di evitare di farlo perché so che quando ho delle canzoni devo poi subito andare in studio a registrare, non posso lasciarle da parte. Ma alla fine mi sono ritrovato davanti ad un pianoforte in questa fattoria inglese e in un paio di giorni avevo già scritto “The Tall Grass” e un pezzo ha poi tirato dietro immediatamente l’altro. Così mi è venuta l’idea di farne una suite e nel Febbraio 2020 abbiamo iniziato due settimane di registrazioni in uno studio di Brooklyn, ma solo dopo pochi giorni eravamo in lockdown. Siamo stati costretti a fare gran parte del materiale a distanza e abbiamo finito a luglio, accampati a casa mia.

Non è andata così male alla fine…

No, certamente. L’unica parte stressante è stata doversi fermare nel mezzo del progetto e riprendere molti mesi dopo.

È interessante come abbiate deciso di far uscire il disco, solamente in formato digitale e vinile. Quest’ultimo poi, con le tracce solo in un lato, è come se fosse l’intero racconto di una storia.

Sì è stato concepito come un flusso che deve suonare dall’inizio alla fine, proprio per questo ho preferito che fosse stampato così!

La scelta grafica della copertina dell’album è un collage sull’onda positive 60s. Cosa significa esattamente “Butter Miracle”?

È un segreto! È un nome che ha un significato per me, ma avevo deciso già prima dell’uscita che non avrei rivelato a nessuno cosa sia. Forse qualcuno della band lo ha capito, ma gli ho fatto promettere di non rivelare alcun dettaglio a nessuno.

Il titolo è completato dalla dicitura “Suite One”, ci sarà dunque anche una “Suite Two”?

Sì credo proprio di sì. Ci sto lavorando ma è già praticamente tutta scritta. Credo la registreremo a gennaio 2022, vorrei averla pronta prima di andare in tour in Europa.

Anche questo sarà un EP di quattro tracce come “Suite One”?

Sì vorrei che l’idea della suite si mantenesse anche in questo caso. Sai, cerco di scrivere storie molto dettagliate, voglio che il risultato sia molto vivido. Non voglio solo mettere insieme un po’ di sentimenti e di considerazioni, voglio fornire quanti più colori e dettagli possibile al pubblico.

Sei un ottimo cantastorie, quello che racconti arriva facilmente anche a noi europei anche se abbiamo un background differente da quello americano…

Ti ringrazio molto di quello che dici, spero sempre che quello che scrivo abbia un respiro universale. Ho vissuto la maggior parte della mia vita negli Stati Uniti quindi non posso che esserne influenzato da ciò, anche se posso dire che per entrambe le “Suite Butter Miracle” c’è molta Inghilterra, dato che la maggior parte dei pezzi sono stati scritti lì.

Il protagonista della canzone “Bobby and the Rat-Kings”è un musicista che accetta i compromessi di una vita passata sempre in viaggio: è una sorta di tuo alter ego?

Si in un certo senso sì. Nel primo album le due canzoni “Elevator Boots”e “Bobby and the Rat-Kings”sono entrambe dedicate alla musica, che è ovviamente la cosa più importante della mia vita. Una è scritta dal punto di vista di un membro di una band, l’altra dal punto di vista di un fan. Entrambe sono state parti della mia vita, sono un patito di musica da sempre e scrivo musica da quando ho diciotto anni e credo di aver parlato molto di ciò specialmente nella prima suite.

Su “Elevator Boots”in particolare ti soffermi molto sulla problematica dell’essere famosi e di come ti rapporti con questo fattore.

Sì certo, tutto ciò che viene detto in queste canzoni riguarda la temporaneità, il lasciare  continuamente luoghi e persone, ma la musica è una costante e questo è il punto di questi brani. Anche se tutto è effimero e sfuggevole, la musica è sempre con lui, con tutto il suo significato, e lo porterà sempre a un nuovo concerto da suonare, bilanciando la vita. Di solito nulla è veramente mai perfetto o completamente terribile, le cose hanno sfaccettature e la vita è complessa proprio per questo. Adoro la musica ma qualche volta la odio anche, così come non mi piacciono alcuni aspetti della vita ma non scambierei queste cose per nulla al mondo. La fama è un’altra cosa invece, riguarda ciò le altre persone possono farti, mentre la musica è una cosa che facciamo per noi stessi.

Nella versione in vinile è presente la bonus track “August and Everything After”, canzone omonima del vostro album di debutto del 1993. Puoi parlarcene un po’?

Quella canzone è stata scritta proprio a quei tempi, doveva far parte del primo album ma era veramente troppo lunga ed era stata scritta per pianoforte, quindi avrei dovuto suonarlo io che non me la cavo benissimo. Al tempo inoltre non si poteva correggere il pianoforte, cosa che oggi invece si può fare con Pro-Tools, quindi dovevo suonarla perfettamente per registrarla su nastro e non ce la facevo proprio. Un giorno ci lavorammo a lungo ma non riuscivo a venirne fuori con una versione eccellente, anzi non riuscivo proprio a finire il pezzo. A un certo punto T-Bone Burnett, il produttore del disco, era veramente frustrato e ci disse di fare una pausa mentre stava lasciando la sala. Prima di raggiungerlo chiesi all’ingegnere del suono di registrare un’altra traccia che avevo scritto per Bonnie Raitt – che avevo conosciuto prima di iniziare a suonare con la band – perché in quel periodo aveva bisogno di materiale e volevo mandargli qualcosa. La cosa divertente è che anche la mia amica Bonnie Simmons era in ottimi rapporti con Bonnie Raitt. A volte ci era capitato di ascoltare insieme alcune delle centinaia di cassette che i fan della Raitt le spedivano come proposte per il suo repertorio. Molte delle hit di Bonnie furono scovate da Simmons in questi nastri, quindi anche io volevo mandargliene una. Insomma dopo averla registrata mi accorsi che T-Bone era rientrato e mi chiese cosa diavolo fosse quel pezzo. Le risposi che era “Raining in Baltimore” e che era per Bonnie Raitt. Lui decise su due piedi che la Raitt e “August and Everything After” potevano andare affanculo perché sul disco ci sarebbe finita “Raining in Baltimore”. Quindi “August” rimase nel cassetto fino a dieci anni fa, quando organizzammo un concerto con un’orchestra, il cui direttore Vince Mendoza ne volle fare una versione arrangiata da lui con la pedal steel, batteria, basso e me. Prima di suonarla assieme mi accorsi che alcune parti della scrittura originale erano un po’ deboli, quindi quella fu l’occasione per rimettere mano al pezzo e ne venne fuori una bella cosa, ma non la registrammo. Sempre con Vince la rifacemmo col suo arrangiamento nel 2018 per una Amazon Exclusive e quando abbiamo riottenuto i diritti sulla canzone l’abbiamo inserita come B-Side su “Butter Miracle”.

Avete iniziato il tour negli Stati Uniti e vi stiamo aspettando qua in Europa, infatti suonerete in Italia dopo cinque anni di assenza. Sono passati troppi anni, volevate abbandonarci?

Beh abbiamo suonato più in Italia che in altri posti in realtà, perché durante quel tour di cinque anni fa suonammo solo da voi e in Inghilterra. Arriviamo ad aprile e non sto più nella pelle. Devi sapere che per la band suonare in Europa è la cosa più bella di sempre. Tutti vogliono andarci appena possibile, ma dipende sempre da quale disponibilità hanno i promoter. Mi piacerebbe molto suonare durante i festival estivi, ma credo che per questo tour abbiamo almeno tre o quattro date in Italia. Siamo molto entusiasti al riguardo perché abbiamo molti buoni amici da voi e perché diciamocelo, in Sud Italia e in Spagna c’è il cibo migliore del mondo, eil miglior vino.

Spesso pensiamo che il motivo per cui grandi artisti non vengono a suonare in Europa sia dovuto alla mancanza di venues abbastanza grandi o di vostro gradimento, con l’eccezione dei festival ovviamente.

No aspetta, è meglio che in qualsiasi altro posto. Non ho timore a dire che ogni band americana sogni di andare a suonare in Europa. O comunque di attraversare l’oceano come fecero i Beatles quando vennero negli Stati Uniti. Mettiamola così: ogni band americana suona in America, ma solo alcune riescono ad arrivare oltreoceano. È proprio quello che rende la cosa speciale, che ti rende una rockstar. É fondamentale poter andare in tour in posti dove la risposta è sempre vibrante ed elettrizzante come in Europa. Ti garantisco che se tutte le band potessero scegliere dove poter suonare sceglierebbero l’Europa, ma questo dipende veramente solo dai promoter. E noi siamo stati molto fortunati ad avereClaudio Trotta di Barley Arts come promoter. Ti racconto questa: cinque o sei anni fa siamo andati in giro per l’Europa a parlare con ogni promoter di ogni singolo paese chiedendo la loro opinione su quando sarebbe stato il momento migliore per noi per venire in tour, invece di imporgli una serie di concerti secondo la nostra visione.  L’obiettivo con Claudio era di allargare la nostra fanbase in Italia perché non avevamo mai veramente avuto un grande successo lì e lo desideravamo fortemente, semplicemente perché è un posto migliore rispetto a tanti altri. Lui ebbe un sacco di ottime idee, tra cui una che mi fece andare completamente fuori di testa quando mi disse che avrebbe provato a farci fare da apertura a Bruce Springsteen. Io risposi che Springsteen non ha mai band d’apertura, ma secondo lui era una buona idea ed era veramente convinto di farlo. Io ho pensato che fosse semplicemente impazzito, ma un paio di anni dopo mi chiama e mi dice che Springsteen ci voleva come apertura alla data di Roma.

E l’avete fatta.

E l’abbiamo fatta. Probabilmente solo in quella data abbiamo suonato davanti a più persone di tutte quelle messe insieme degli altri concerti che abbiamo fatto in Italia. Abbiamo sempre suonato in posti piccoli, sempre a Milano, qualche volta a Venezia, magari Firenze o Roma, ma non siamo mai riusciti a suonare in tutto il paese. Quindi credo che il concerto con Springsteen abbia cambiato molte cose per noi. 

C’era pubblico da tutta Italia a quel concerto.

Certo, e dobbiamo tutto questo a Claudio, non potevo nemmeno credere che stesse davvero accadendo e invece l’ha tirata fuori dal cappello così. É importante intessere queste relazioni, perché negli Stati Uniti vai semplicemente in giro con LiveNation, mentre in Europa devi conoscere i promoter a cui importa quello che basta per portarti nuovamente a suonare lì. Siamo stati veramente fortunati con Claudio. 

E anche noi ringraziamo Barley Arts! Un’ultimissima domanda Adam: dimmi i tre dischi più importanti per la tua vita.

Beh è una classifica che cambia in continuazione, per adesso ti direi “Kind of Blue” di Miles Davis, probabilmente uno dei dischi migliori di sempre, mi fa ancora impazzire. Poi forse “Blue” di Joni Mitchell o “A Walk Across Rooftops”dei The Blue Nile, per rimanere sul tema del blu. Come terzo disco direi un disco più recente che ho veramente amato in questi ultimi anni, si tratta di “Go Farther In Lightness”dei Gang of Youth, è un mix incredibile di Bruce Springsteen, Tom Waits e noialtri. Credo che adoreresti davvero quel disco, è veramente bello. Non conosco nessuno al momento con una passione e una capacità di scrittura comparabile al loro cantante, David Le’aupepe. Quando sono andato a Londra ho cantato nel loro nuovo album che uscirà a breve. Sono molto elettrizzato a riguardo perché sono una delle mie band preferite.

Grazie Adam, ci vediamo ad aprile!

Articolo di Francesca Cecconi

Si ringrazia Barley Arts per aver organizzato la video-intervista 🙂

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