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Massimo Silverio intervista

Il suo album “Hrudja” è così ricco di sfumature che è impossibile non avere curiosità a riguardo

Con Massimo Silverio decidiamo di darci appuntamento in un locale in centro a Udine il giorno dopo del suo doppio concerto, sold out, al Teatro San Giovanni. Avevo già in mente cosa chiedergli da giorni, del resto il suo album “Hrudja” (la nostra recensione) è così ricco di sfumature che è impossibile non avere curiosità a riguardo, ma dopo averlo ascoltato dal vivo ho capito che le domande che avevo preparato non avrebbero colto nel profondo la vera essenza del suo lavoro e che, la chiave, era da rintracciare all’interno dei territori che entrambe conosciamo bene: il Friuli. Vivere in una terra così particolare in qualche modo ti plasma, ti porta a esplorare dimensioni intime che si collegano in modo atavico con la natura. È questa la lettura con cui ho voluto, in qualche modo, condurre la nostra chiacchierata, parlando del disco non solo come opera musicale ma anche come testimone di tradizioni antiche da preservare.

“Hrudja”, il tuo disco, è uscito a novembre e ha avuto un successo enorme da parte di pubblico e critica te l’aspettavi?
No, non me l’aspettavo assolutamente anche perché è sempre stata molto strana l’idea che qualcuno da fuori regione ascoltasse le mie canzoni dopo anni di tentativi. Tutta questa accoglienza, delle riviste maggiori d’Italia, delle testate, delle penne un po’ più importanti che parlano di musica e la condivisione di Iggy Pop della canzone, è stata inaspettata e lo è tutt’ora, quindi mi sto vivendo bene il momento, sono contento.

Domanda d’obbligo è sul carnico (lingua parlata nelle montagne friulane ndr), è stata una scelta estetica o una sorta di esigenza dettata dalle tue radici?
Secondo me il carnico suona veramente molto bene quando si tratta di metterlo su una canzone, al di là di questo non è stata tanto una scelta estetica la mia, anzi. Stavo cercando di essere più sincero possibile nell’esprimere le cose che avevo dentro di me, essendo che il carnico è la lingua che forse ho parlato di più e che continuo a parlare di più nella vita di tutti i giorni, nel quotidiano, ho deciso di usare quella lingua col fine di essere sincero.

So che c’è stata una ricerca particolare nella linguistica, all’interno dell’uso del carnico hai cercato termini molto più antichi di quelli comunemente parlati, giusto?
Esatto, tanti termini arrivano dal retaggio della mia famiglia, i miei nonni, quando ancora erano vivi, parlavano quel tipo di friulano carnico. Anche mia madre ogni tanto usa qualche parola ed io cerco di avere le antenne sempre tese nel recepirla. Ti faccio un esempio: una canzone del disco si chiama “Criure” che possiamo tentare di tradurre con freddo, gelido o arido ma anche come angustia e privazione nonché uno stato di profonda angoscia. Come vedi non è perfettamente traducibile in italiano, non esiste una corrispondenza esatta, per questo ho sempre un po’ di attenzione per questi termini che di fatto non vengono più usati molto. Ho cercato quindi di usare parole strane che in qualche modo non fossero riconducibili all’italiano. Anche il titolo dell’album “Hrudja” è l’antenato longobardo del termine “Grusa”, anch’esso un brano dell’album, che è la crosta che rimargina una ferita.

La critica musicale ha spesso l’abitudine di trovare parallelismi con altre band o artisti, tu ad esempio vieni spesso accostato ai Sigur Ros, in realtà quali sono i tuoi ascolti?
È una cosa un po’ strana, perché i Sigur Ros non li ascolto da molto tempo, li ho visti live anni fa al No Borders Music Festival ma da allora li ho persi. Non sono nemmeno stati fonte di ispirazione perché sento la lontananza sia dall’Islanda sia dal modo di cantare di Jonsi. Mi è un po’ difficile rispondere a questa domanda perché ho ascolti un po’randomici tra cui tanta musica folcloristica di tutto il mondo. Sicuramente uno dei dischi che ho più ascoltato mentre componevo “Hrudja” è “Laughing Stock” dei Talk Talk, del resto Mark Hollis è una grande fonte dalla quale attingo in maniera cosciente. Ogni volta che lo ascolto mi riempio di tante immagini e tanta bellezza. Sono inoltre molto legato a De André, che ho ascoltato tantissimo durante la mia infanzia. Sono cresciuto con la sua poetica, prendi ad esempio “Crêuza de mä”, all’epoca fu anche grazie a questo disco che pensai fosse, in fondo, possibile fare un album in dialetto.

Il richiamo alla Carnia è molto potente e trovo un meraviglioso parallelismo tra il disco ed i territori: entrambe emanano potenza ma in qualche modo sono “asciutti”. Ho sentito un forte istinto territoriale, è davvero così o è una mia sensazione?
È vero, quando guardo dentro di me sono nascoste alcune immagini che si sono create nel corso degli anni. Erano gli anni della mia infanzia giocando nei boschi, nei fiumi, guardando le montagne. Per me era stranissimo uscire da quelle montagne. Quando venivo a Udine mi sembrava di arrivare in una metropoli enorme. Adesso che ci vivo mi rendo conto di quanto sia una cittadina molto piccola. Ecco, so che quando guardo a dei paesaggi interiori sono anche un po’ una rappresentazione dei sentimenti di ognuno. Ciascuno ha delle immagini proprie, fantasiose, che sono anche legate all’onirico, al sogno, che comunque non è tanto lontano da quella che è la realtà. Quindi si, mi sono lasciato ispirare molto da quei luoghi e da quelle visioni oniriche, quelli sono i miei paesaggi interiori e mi piace quello che hai detto ovvero di quanto sia asciutta quella terra. La secchezza che si sente anche in “Criure”, il freddo arido ma anche la desolazione, perché purtroppo, sono territori che si stanno spopolando sempre di più, ma del resto anche la desolazione, se vogliamo, ha del fascino.

Hai toccato un tema importante, ovvero lo spopolamento dei territori e anche la perdita di tradizioni molto antiche tra cui appunto la lingua carnica, possiamo considerare “Hrudja” una sorta di testimone di quelle tradizioni?
Potrebbe esserlo, anzi è una visione molto interessante e bella. Credo sia importante che le tradizioni non vadano perse ed ho notato che negli anni i ragazzi, anche miei coetanei, non parlano più questo genere di friulano. Ora è molto più italianizzato, più semplice. La mia generazione è forse l’ultima che è entrata a contatto con le tradizioni degli anziani, di coloro che usavano ad esempio il canto spontaneo come forma di consolazione o di amore. Parlando con tanti anziani mi raccontavano le filastrocche e le villotte e raccontavano le differenze con quelle di altri paesi, oppure mi cantavano filastrocche inventate da loro. Questa è un’immagine della Carnia che non esiste più e credo sia giusto mantenere vive tutte quelle tradizioni.

Tu hai un modo di cantare che è particolarmente etereo, hai anche un timbro vocale etereo. Mi piace molto il contrasto con la lingua Carnica che, nonostante sia musicale, richiama praticità ed è a mio avviso fortemente terrena. Avevi mai pensato a questa contrapposizione o è la tua forma espressiva naturale?
È strano perché per me il friulano, nonostante la praticità, e, se vogliamo, anche la durezza ha un’enorme musicalità. Come hai detto tu ha un forte richiamo alla terra intesa come forma espressiva terrena ma grazie a questo trascina tutta la musica che ne viene evocata. Mi spiego, quando si nominano certe parole queste portano con sé una componente eterea, un sentire che ha una caratura particolare. Il che è anche tipico dei friulani che sembrano persone molto concrete ma in realtà sono estremamente profonde e fantasiose. Quando da ragazzo, ad esempio, andavo a lavorare nei boschi e tagliavo la legna trovavo ci fosse qualcosa di molto spirituale in questo, nell’incontro con la natura. Secondo me il friulano è una lingua dolcissima che porta dentro di sé, nonostante questa durezza, qualcosa di malleabile, di liquido, trasparente che non si può capire né afferrare, un po’ come l’amore.

“Hrudja” stato prodotto da Manuel Volpe in collaborazione con Nicholas Remondino, che ti accompagnano anche nei live, come è stato amalgamare le vostre tre visioni artistiche in un lavoro così ambizioso?
Per i concerti riusciamo a fare pochissime prove a causa della distanza e del poco tempo che abbiamo per prepararci. Manuel e Nicholas sono musicisti preparatissimi e siamo molto legati, sicuramente se fossimo più vicini riusciremmo a fare molte più cose. La realtà è che, anche se veniamo da esperienze diverse, il tutto è avvenuto in maniera molto naturale, c’era un intento comune e questo ci ha portati a non avere alcuna difficoltà. L’intesa è stata immediata avevo un’idea in testa ed è stata capita e recepita immediatamente in maniera fluida. È stato molto bello.

Avete già programmato le prossime date del tour?
Si il 19 aprile suoneremo al Teatro Miela a Trieste, il 14 maggio all’Arci Bellezza di Milano, il 15 maggio presso il MITA alla rassegna che si chiama Voices Hybritude ed il 24 maggio saremo a Torino per il Jazz is Dead.

Articolo di Silvia Ravenda

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