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Vieri Cervelli Montel intervista

Poetica che rifiuta i codici estetici dei generi musicali e ne opera la
destrutturazione in canzoni ibride e contaminate

Vieri-Cervelli-Montel

Vieri Cervelli Montel è uscito da qualche mese con “I” (la nostra recensione), lavoro d’esordio sia per lui che per l’etichetta Tanca Records. Lo abbiamo intervistato dopo le prime due date del tour di debutto solista e in previsione del concerto di Cremona il prossimo 4 agosto.

Partiamo dall’inizio e cioè dalla genesi di questo album che hai intitolato Primo, “I” per la precisione. Nel recente passato ho assistito alle aperture dei concerti di Iosonouncane dove tu suonavi e qualcosa di questo album avevo ritrovato in quei set.

Questo lavoro è nato ben prima dell’esperienza di apertura dei concerti di Iosonoucane. Anzi, queste sono arrivate a lavoro già chiuso da un anno circa. Il disco ha avuto una genesi complessa nel gesto musicale, nella composizione, nella produzione, nella registrazione. Il tutto, dunque, per un totale di circa cinque anni. In questo lavoro c’è dentro una vita intera. Il disco, infatti, è la metabolizzazione di vari eventi e di interi periodi della mia vita che, in realtà, ho affrontato molto più tardi di quanto averi dovuto fare. Forse.

Il disco, quindi, ho iniziato a lavorarlo circa sei anni fa, in un momento della mia vita nel quale ho cominciato un discorso di ricerca su me stesso, sulle mie radici e su mio padre, che ho perso quando ero piccolo. Non sono partito volontariamente per scrivere un disco. Non mi sono messo a lavorare con quell’idea. Ho scritto musica. Ho scritto parole. Le ho prodotte poi lentamente e mi sono reso conto che tutto che stavo scrivendo orbitava attorno a una certa sfera e che c’erano gli estremi, in sostanza, per un concept album. A quel punto ho seguito quella strada e, dopo tanti anni di lavoro, con tante persone al mio fianco, siamo arrivati ad avere il lavoro finito. Jacopo Incani (in arte Iosonouncane) ha deciso di farmi aprire i concerti e di iniziare a lavorare al progetto. Ma il tutto è iniziato molto tempo prima.

Oltre a lavorare con Jacopo Incani, lui ha anche deciso che il tuo album fosse il primo lavoro della sua nuova etichetta, la Tanca Records…

“I” oltre ad essere il mio primo disco è anche, e soprattutto, il primo album di Tanca Records, questa nuova etichetta di Iosonouncane e che Jacopo stesso ha voluto fondare e dirigere. E’ una realtà che ritengo preziosa e necessaria. Nel senso, socialmente e culturalmente… è un orgoglio, per me, essere stato il primo.

Veniamo alla tua formazione. Hai studiato Jazz. Questo lavoro, dove passi alla sperimentazioni e alla ricerca, è in continuità con quello che hai studiato e fatto fino a questo momento?

C’è un’estrema continuità. Ho studiato jazz a Siena, convinto della mia scelta. Però non so se ho mai avuto davvero l’intenzione di fare musica codificata come jazz. Ho sempre, in realtà, rifiutato i generi e le etichette, e anche una certa estetica codificata e cristallizzata. Il mio percorso di studi mi ha dato i mezzi per indirizzarmi verso quelli che erano i miei mezzi espressivi e i miei linguaggi. Anzi, proprio a Siena, nelle classi di improvvisazione radicale, non idiomatica, libera da linguaggi, ho conosciuto tutti i musicisti che hanno suonato e lavorato con me nel disco. Per me è stata un’esperienza formativa sia come musicista sia come essere umano. Il jazz ha costruito e costituisce parte delle radici del mio percorso musicale.

Entriamo nel tuo lavoro. Le ultime tre tracce sono meravigliose. Nella recensione le ho definite non la fine, bensì l’inizio di questo lavoro. Ci spieghi come sono nate e cosa rappresentano nell’economia del tuo album?

Sono contento di constatare interesse per quella sezione del disco che anche per me è centrale. Al movimento finale “Alba – Ultimo – Primo” sono molto legato. “Alba”è il momento in cui nulla è più nascosto e viene a galla in maniera cruda; è il momento in cui si manifesta in superficie il male che è latente e sommerso per tutto il disco. Qui, questa fase, è il movimento emotivamente più intenso del disco. “Ultimo” rappresenta la chiusura sul piano temporale del male, di ciò che di doloroso è successo. È l’ultimo momento in cui io mai visto mio padre, un tempo che neppure ricordo in realtà, e che è stato censurato dal mio stesso corpo. “Primo”, ovviamente, dopo “Ultimo”, rappresenta un nuovo inizio, riagganciandomi a un ricordo dolce, di cui si parla nel brano, di questa persona, che mi ha sempre chiamato il primo. Per me rappresenta proprio questo: la vita nuova dopo la morte.

La vita nuova non intesa come rinascita fisica o spirituale, ma intesa come il brano stesso dice, e cioè come fine della paura della morte. In questi anni mi sono reso conto che la vera vita, e dunque la vera sconfitta della morte non è tanto la vita in se, ma il cessare di avere paura della morte. Allora lì davvero la morte diventa qualcosa per cui tu apprezzi la vita e vivi realmente. Consci dell’importanza della morte in realtà non la temi e non hai paura di vivere perché un giorno quello che stai vivendo finirà. In questo senso per me “Primo” rappresenta la rinascita che auspicavo e che, scrivendo, adesso posso accettare. Realmente ho accettato che siamo mortali.

Come proponi questi lavoro dal vivo?

Mi sono appassionato senza neppure rendermene conto alla prassi di rendere dal vivo questo lavoro. Da un lato, in maniera veramente filologica e rispettosa del disco. Dall’altro in modo estremamente multiforme e cangiante. Per tanto, lo suono con formazioni diverse. Il primissimo tour, in apertura di Iosonouncane, ero con chitarra classica, piano e grancassa, nessun tipo di effetto. Ora sono in tour con un trio completamente differente: chitarra elettrica, batteria e sintetizzatore, sassofono tenore. Con entrambe le formazioni ho suonato dei frammenti del disco, dei movimenti interi formati da più brani. Sempre, dunque, in una veste diversa e rimodellando di volta in volta i brani attraverso la stessa improvvisazione radicale che è poi quella che ha fatto sì che i brani fossero arrangiati in quel modo. Tuttavia, due cose.

La prima è che la versione del disco che noi siamo abituati a concepire come la versione ufficiale – ed è ovvio che anche per me è importante – è, in realtà, una delle manifestazioni possibili, una delle versioni possibili di quel brano. Il lavoro di arrangiamento che è decisivo, come anche l’improvvisazione, o lo smontare completamente quell’arrangiamento, anche in modo radicale magari, con gli strumenti che si astraggono dal loro ruolo canonico, e con manipolazione elettroniche. Quindi, quello che si sente nel disco è una delle infinite versioni possibili. Io, però, ne indago anche altre dal vivo, con queste formazioni. La seconda cosa è che in realtà noi abbiamo anche una esecuzione integrale del disco pronta, con le persone e gli strumenti che lo hanno suonato. Ve la faremo sentire presto.

Articolo di Luca Cremonesi
Foto di Camilla Cattabriga

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