L’edizione numero 19 del Festival “Dal Mississipi al Po” regala un programma ricco e variegato e il 22 giugno ha visto il concerto del chitarrista, di origini canadesi Philip Sayce, a Fiorenzuola d’Arda (Pc). Il Festival, un contenitore ricco di occasioni con concerti, conferenze, libri, coordinato da Seba Pezzani – scrittore, giornalista, traduttore e musicista – da quasi due decenni (il prossimo anno saranno 20 anni di gloriosa carriera), sotto la sua sapiente guida, porta sul territorio piacentino nomi eccellenti della grande galassia del Blues.
Philip Sayce è un concerto per orecchie fini, per gente che sa cosa sta andando a sentire. Il nome circola negli ambienti delle sei corde, ma non è di certo, al momento, incensato come Bonamassa, o ai livelli di fama raggiunti ormai da Eric Clapton (la nostra recensione). Tuttavia proprio Clapton ne ha riconosciuto il talento e la genialità invitando Sayce al suo festival delle sei corde. Quindi, come si dice, l’endrosement c’è stato. Tutto meritato. A Fiorenzuola, il talentoso chitarrista arriva con grandi aspettative da parte di tutti, anche perché si tratta di una delle poche date live previste nel nostro Paese, per il suo nuovo tour europeo (il prossimo appuntamento sarà il 7 luglio a Battipaglia).
L’attesa era tanta per questo musicista, e per la sua performance. La piazza si è riempita subito, e si è capito, entrandovi, che c’erano fan appassionati, pronti già con i vinili sotto il braccio, da far firmare. Con birra fresca in mano, per vincere l’arsura dell’afa padana, chiamano fin da subito a gran voce il loro idolo, ben prima che lo spettacolo inizi. Celebrato il rito dei saluti e dei ringraziamenti iniziali da parte delle autorità, Sayce sale sul palco accompagnato da due musicisti, andando così a formare la sacra triade: batteria (quattro pezzi), basso e chitarra (la sua). Nient’altro. Solo quanto serve, come sanno bene i grandi. Il talento non mancherà su quelle assi, e si capisce subito dai primi tocchi delle dita sulla tastiera, semplici esercizi che servono solo per testare suoni e accordatura dello strumento.
Poi il flusso musicale ha avuto inizio. Flusso sì, perché di fatto la scaletta non esiste. Sayce ha suonato liberamente. Non si tratta di improvvisazione ovviamente, ma di una scelta del tutto randomica fra i suoi album, mescolata, in alcuni passaggi, con assonanze e sonorità prese dalla tradizione, oltre che da alcuni grandi nomi del Blues internazionale.
La band lo segue senza indugi, forte di una prassi che, evidentemente, è ormai rodata ed è diventata abitudine. Non si devono neppure guardare, basta un sono, e i tre partono accordati. È una priorità, solitamente, dei musicisti statunitensi, quelli di mostrare capacità di improvvisare, di essere liberi e di non avere bisogno di fogli scritti, con il percorso da seguire. Un poco è priorità di chi fa della musica una vera professione, senza dimenticare che questa arte ha origine in quella terra. Non che questi suoni nella bassa del Po ci stiano male, ma è certo che qui di schiavitù ce n’è stata un’altra, non meno dura, quella cioè del lavoro contadino per conto di grandi proprietari terrieri, ma di certo non è stata la schiavitù violenta subita dagli afro-americani. Così questi suoni non sono nel dna nostro, ma di chi vive oltre oceano, e che sa, come nel caso di Sayce, farli propri, attuandoli, senza però scordarne le origini. Ecco perché il suo suono è pulito, ma allo stesso tempo pervaso da una forza tribale, quasi selvaggia, che richiama il sound e il mood dei musicisti di colore.
Bastano pochi tocchi, e il trio parte, ben rodato e affiatato, senza sbagliare nulla. Bryan Head alla batteria e Sam Bolle al basso sono i complici di quello che, a tutti gli effetti, è stato un vero concerto coinvolgente, a tratti selvaggio, carico di energia grazie ai suoni, all’intensità e all’anima letteralmente lanciata dal palco, fra le braccia del proprio pubblico. In questo aspetto Sayce appare davvero molto molto rodato, ben oltre quello che dice la sua discografia. Se la scaletta, appunto, è di difficile decifrazione, perché Sayce pesca sia dall’ultimo lavoro, e cioè “Spirit Rising” del 2020, sia si esercita in scorribande varie nella discografia che vede all’attivo quattro album in studio (e uno live “Scorched Earth vol. 1”); il resto dello spettacolo, e cioè le emozioni suscitate, sono la benzina di questo spettacolo. Tuttavia, ogni pezzo è rielaborato dal vivo, senza per forza essere simile alla versione in studio, se non per i giri di chitarra iniziali.
Fin dai primi suoni si capisce che qui non c’è solo virtuosismo, velocità e talento delle sei corde. In Sayce c’è un vero spirito selvaggio, quasi indomito, che si scatena appena sale sul palco. Eppure questo ragazzone biondo che, alla fine del concerto, ti stringe la mano e ti ringrazia per aver comprato i suoi cd, e per il supporto che in questo modo dai alla sua musica, non sembra affatto avere un’anima travagliata. Anzi, appare come il classico turista d’oltre oceano in vacanza in Europa, piovuto per caso nella bassa padana. Fisico prestante, sguardo sereno, occhio chiaro e capello, mosso, biondo. Tutto quello che serve per essere accattivante, non solo per le sei corde.
Qui, però, la differenza la fa il suono che ricorda, in molti momenti, e non pochi, le cavalcate di Hendrix e, allo stesso tempo, la pulizia del suono di Clapton. Il tutto condito con molta velocità – forse troppa – su alcuni brani, quelli più rock, e meno blues, della serata. Non che queste proposte, quasi tutte figlie dell’ultimo lavoro, siano poco interessanti, ma di certo il meglio lo propone quando torna ai pezzi più blues, a tinte funk. Descrivo spesso il mio sound come musica delle radici, perché contiene influenze di tutti questi elementi. Allo stesso tempo, però, voglio portare il mio sound in direzioni nuove che riflettano chi sono, dove sono, e dove sono diretto, ha dichiarato in varie interviste. Questo lo si è sentito, in modo chiaro, nel concerto di Fiorenzuola. Dopo quasi 40 minuti frenetici e selvaggi, quasi rudi in alcuni suoni della sua chitarra, Sayace, regala una parte centrale più tecnica, meno virtuosa, e meno veloce, ma decisamente molto più attenta al recupero di suoni e temi della grande tradizione blues. In questa fase basso e batteria si limitano a sostenere il tutto, senza prendersi parte della scena.
Un set nel quale Sayce si muove con grande naturalezza, senza stravolgere l’assetto della band, e della sua presenza in scena. Tutto scorre sempre come un grande flusso, come un fiume, che non si interrompe, se non giusto per un saluto, e per bere un po’ d’acqua. Se le trame appaiono pulite, molto morbide, simili in tutto e per tutto a quelle di Steff Burns nei suoi progetti da solista, allo stesso modo sono ruvide quando il ritmo diventa incalzante. Il basso, in alcuni momenti, e cioè nelle parti più rock, spinge quasi nella direzione dei Red Hot Chili Peppers, mentre Sayce tira fuori grinta diventando un cavallo di razza, stallone selvaggio, difficile da imbrigliare in un solo genere. In questi passaggi, quelli cioè della terza fase del concerto, la band diventa fondamentale per contenere e dare una direzione a un suono che sembra davvero nascere spontaneo, grezzo e ruvido.
A quel punto a nessuno interessa davvero più della scaletta della serata. Quello che si vuole è sentire questo ottimo chitarrista suonare il più possibile. Un coinvolgimento emotivo che deriva proprio da questo suono che volutamente non si lascia imbrigliare in categorie chiuse. Quello che si ascolta è un ottimo rimescolamento della tradizione, dall’idolo Jeff Healey, scomparso nel 2008, passando, fra gli altri, alle tinte blues dei Led Zeppelin di “Presence”. Senza dimenticare Hendrix, e non è un caso, infatti, che nel finale c’è chi lo urla, e lo vorrebbe come bis.
Una calda serata dove le sei corde sono state protagoniste di un concerto carico di energia. Pura, per certi versi, perché Sayce non si dilunga, va all’essenziale, senza mai scadere nel semplice virtuosismo fine a se stesso. L’unica pecca, forse dettata dall’età, è che ogni tanto c’è comunque una ricerca spasmodica della velocità d’esecuzione sulla tastiera. Questo aspetto piace molto al pubblico, che ritrova e celebra più l’eroe di Guitar Hero, che un musicista. Tuttavia, e vale la pena ricordarlo, Clapton e Gilmour non sono di certo nei libri di storia per la loro velocità supersonica. Anzi…
Alla fine, a luci accese in piazza, prima degli autografi, resta nelle orecchie lo straordinario sapore di musica grezza, che si è fatta e si è generata davanti agli spettatori, mescolata con la dolcezza di alcuni riff che fanno da contro altare a questo spirito indomito. Due anime, dunque, che convivono, come nella nota immagine platonica dei cavalli neri e bianchi, fra le dita di Sayce. Questo Giano Bifronte lo potete ascoltare anche nel live ufficiale, uscito in cd, oltre che, ovviamente, direttamente nei live.
Il ragazzo va seguito, davvero. I margini per fare la storia delle sei corde ci possono essere. Il tutto sarà nel capire se, questo fatto della velocità, gli consentirà di trovare la chiave d’accesso per far convivere, in modo creativo, la parte più animalesca del suo suono. Un qualcosa che lo porta dalla parte di Hendrix, e di chi ha saputo trasformare il talento in genialità, creando dunque uno stile.
Articolo di Luca Cremonesi, foto di Roberto Fontana