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Cesare Basile “Saracena”

L’album consente di capire le potenzialità enormi che ha la musica quando sa fondersi con il dialetto e con la tradizione, e allo stesso tempo guardare al futuro

Il 3 maggio è uscito per Viceversa Records “Saracena”, l’ultimo lavoro del cantautore siciliano Cesare Basile, a un trentennio esatto di distanza dal suo esordio da solista, e a un lustro dal precedente “Cummeddia”. Si tratta del dodicesimo album in studio, traguardo di grande rispetto per un cantautore che, fin dal suo esordio, ha fatto capire di essere distante anni luce dalla musica di consumo, di flusso e liquida. Anzi, negli ultimi dischi Basile ha intrapreso una strada solitaria, che lo ha portato in porti non sempre molto frequentati.

“Saracena” è stato composto e inciso nel corso di appena due settimane, innescato da una grande urgenza espressiva. Un microcosmo di epica politica in un mondo dove è ormai sconsigliato prendere posizione. Quasi un instant concept album, dove il filo conduttore, quello del tema dell’esodo, è stato dipanato assecondando l’istinto e abbracciando il divertimento del suonare, dell’improvvisare. Continuando a privilegiare il punto di vista dei perdenti e degli esclusi, il musicista siciliano sostiene, parlando del suo lavoro, che “in un momento in cui agli artisti si chiede solo di intrattenere le persone senza sollevare questioni scomode o prendere parola sulle ambiguità delle società democratiche, ho sentito il bisogno di affrontare una tragedia che per i più è notizia fruita distrattamente; di provare a capire quanto di universale c’è nel dramma palestinese, e nel farlo mi sono subito reso conto che dovevo agire in velocità, senza rimuginare razionalmente la questione; lavorare nell’urgenza poetica e politica”.

Fin qui tutto condivisibile. In aggiunta c’è che questo lavoro ci consente davvero di capire le potenzialità enormi che ha la musica quando sa fondersi con il dialetto e con la tradizione, e allo stesso tempo guardare al futuro. In poche parole: sospensione del tempo. Nessuna nostalgia in Basile; nessuno sguardo a un tempo mitico passato. Basile non ragiona alla Pasolini, e cioè non guarda alla tradizione come uno spazio-tempo dove poter (ri)trovare quella gioia e quell’autenticità che sono andate perse. Basile usa al meglio i suoi strumenti, dalla chitarra alla sua lingua, ricca e antica allo stesso tempo, e da questo connubio fa nascere un lavoro che è senza dubbio alcuno, come hanno già notato in tanti, è di fatto un flusso unico. Il risultato è un lavoro solido, granitico, che dall’inizio alla fine, fra brani cantati e pezzi musicali, fa capire come la musica sia in grado, se ben gestita, di essere un’arte capace ancora di raccontare e denunciare il nostro presente. Anche se lo fa con materiale che sembra riportare l’orologio indietro nel tempo. Eppure, negli anni ’80, il decennio di plastica, Pagani e De André misero una pietra miliare nella musica italiana, e non solo. Questo per dire che di spazio, ad aver voglia e ad aver la capacità di raccontare, di strada se ne può far fare ancora alle sette note.

Quindi, disco in vinile alla mano, non sfigura sottolineare come questo album sia un piccolo gioiello di sperimentazione. Se fosse firmato Thome Yorke, o Smile, il successo sarebbe altro. Basile, invece, prosegue sulla sua strada, e non cerca divismo e neppure consacrazione.

“Saracena” racconta una storia, scaturita come flusso unico e organico, e cioè un’unica canzone, un unico mondo sonore compatto, sebbene diviso in più parti. Sono otto le tracce, che corrispondono a sei pezzi cantati, e due interamente strumentali. Guidato appunto dal filo rosso dell’esodo, della perdita e della nostalgia, Basile sapeva di stare scrivendo un solo testo, quindi non ha fatto altro che distribuirlo in varie stanze. Il tutto sorretto dal dialetto siciliano, lingua che è già valsa al Nostro due Targhe Tenco. La musica, invece, è un sapiente mix di strumenti tradizionali, in certi casi auto-costruiti, con dissonanze elettriche ed elettronica. Nulla che rimandi alla World Music, ma semmai a esperienze più vicine a Gianni Maroccolo, Iacopo Incani, Flavio Ferri, Daniela Pes e Massimo Silverio, per intenderci. Senza dimenticare che, nel caso degli ultimi due, sono questi che hanno trovato ispirazione nei lavori di Basile, e non viceversa.

All’ascolto si incrociano Mediterranean Gothic, echi di musica africana, spettri cinematografici in bianco e nero, emissioni post-trip hop e la guida della musica concreta nel ricavare oggetti sonori da elementi della quotidianità. Oltre a occuparsi di songwriting, registrazione, produzione e mixaggio, al Canea Nera home studio di Misterbianco, nella natia Catania, Cesare Basile ci ha messo voce, chitarre, percussioni, elettronica, nastri, rebab, baglama e tanpura. Alle esecuzioni partecipano soltanto Francesca Pizzo Scuto alla voce in inglese in Caliti ciatu, Tazio Iacobacci al synth modulare e Puccio Castrogiovanni al mizwad, alla piva e alle percussioni, in alcuni episodi.

Il mood generale di questo è improntato a una misteriosa cupezza, che si stempera lievemente nella più onirica sezione finale. Suoni cupi, ma anche ritornelli ossessivi, con richiami quasi all’immaginario da FarWest, tipico delle atmosfere secche e rarefatte che, almeno in Italia, ha saputo raccontare, per un certo periodo, la scrittura di Omar di Monopoli. Un disco che scava nell’anima della terra, quella che possiede e stride sotto le unghie. Un lavoro disturbante, a un primo ascolto, come d’altronde devono essere le notizie, ormai sempre più comuni, di esodi e migrazioni dovute alla violenza. Consiglio, come ulteriore supporta a questo ascolto, la mostra “Exodus” di Salgado, in corso a Ravenna. Mettetevelo in cuffia, mentre passate per quella sale. Sarà un’esperienza dura, ma la musica, in quanto arte, ha questo compito: raccontare una parte del mondo.

Basile, in “Saracena”, ci riesce molto bene. Non serve descrivere le singole tracce. Come già detto, ci troviamo ad ascoltare un lavoro spezzato solo perché i dischi, oggi, hanno questa forma. In realtà l’album va ascoltato dall’inizio – non a caso, il singoli di lancio, e cioè “C’è na casa rutta a Notu”, apre il disco – fino all’ultima traccia, e cioè “Cappeddu a mari”.

In conclusione, una bella avventura musicale quella che segna il ritorno in scena di Basile. E se tutto questo è figlio di un’urgenza creativa, allora il cantautore siciliano ha fatto capire, con questo disco, non solo di averci portato al di fuori del tempo, inteso come l’attuale consumo musicale e culturale, ma anche al di fuori della sua linea temporale, dimostrando come abbia ancora tanto da dire. Con intensità e forza.

Articolo di Luca Cremonesi

Tracklist “Saracena”

  1. C’è na casa rutta a Noto
  2. Kafr Qasim
  3. Ciuri i cutugnu
  4. Presenti assenti
  5. Bacilicò
  6. Calti ciatu
  7. U irono do Signori
  8. Cappeddu a mari

Line up: Cesare Basile voce, chitarre, percussioni, elettronica, nastri, rebab, baglama, tanpura / Francesca Pizzo Scuto voce in Caliti ciatu / Tazio Iacobacci synth modulare in C’è na casa rutta a Notu, Kafr Qasim e U iornu do Signuri / Puccio Castrogiovanni mizwad in U iornu du Signuri, piva e percussioni in Cappeddu a mari

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