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U2 “Songs of Surrender”

Lavoro onesto su quanto già fatto, mostra come si opera su un brano

Quanto siamo disposti a concedere a un’artista, singolo o gruppo che sia, che metta mano alla sua opera? La domanda fondamentale, per approcciarci a questo nuovo lavoro degli U2, credo sia proprio questa. Che porta, inevitabilmente ad altre due questioni, proprie dell’Estetica: chi è il padrone di un’opera (Chi la crea? Chi ne fruisce? Chi, in epoca contemporanea, ne usufruisce, come i social?)? Di conseguenza, chi ci può mettere mano (Il pubblico? Un esegeta? Un altro artista? L’artista stesso?).

Il tutto porta a un’altra domanda: quanto siamo disposti ad accettare il cambiamento? Attenzione, non dell’artista, ma nostro, e dell’epoca in cui viviamo. Già, perché la questione è seria. Se, infatti, ogni svolta fatta dagli U2 diventa oggetto di critica, la domanda deve per forza cambiare obiettivo: siamo noi – come pubblico e amanti della band – che non vogliamo cambiare, che non vogliamo che quell’epoca, nella quale abbiamo fruito di quell’arte, passi e se ne vada? Dobbiamo chiedercelo, che ci piaccia o no. Perché la band, nel tempo, ci ha abituato a svolte, sferzate e, di conseguenza, a grandi critiche. Ma è ancora qua. E produce arte, cioè buona musica. Allo stesso tempo, come scrivono molti, gli U2 sono l’ultima grande rock band della quale sappiamo a memoria i nomi di tutti e quattro i componenti. Poi, leggendo la biografia di Bono (la nostra recensione), ci si rende conto che sono davvero l’ultima rock band capace sempre di far parlare di se e, contemporaneamente, dei temi che trattano. E dell’arte stessa. Come in questo caso

Così la nuova raccolta, uscita il 17 marzo 2023 su Universal Music, porta in eredità già una marea di critiche. A oggi, invece, gli elogi sono ancora pochi. Vedremo, poi, con il passare dei mesi, cosa succederà. Un tempo, infatti quando le età e le generazioni erano legate a un’aspettativa di vita breve, si era soliti dire, con il Poeta, ai posteri l’ardua sentenza. Ma i posteri, dove l’aspettativa di vita si allunga, siamo noi stessi, dato che possiamo guardare alle carriere con lunga prospettiva temporale e, allo stesso modo, avere ancora qua con noi, e cioè vivi, i protagonisti. A noi spetta l’ardua sentenza, e cioè il giudizio anche su questo lavoro.

Lo diremo in modo sintetico, subito.
Si tratta di un capolavoro? NO.
Si tratta di un bel lavoro? SI.
Si tratta di un lavoro onesto? SI, onestissimo direi.
Tutte le canzoni sono belle in queste nuove versioni? NO, ma neppure nelle versioni classiche erano tutte belle. Siamo onesti…
Si tratta di un album di svolta? SI.
È un lavoro che farà epoca? NO, ma lascerà un certo segno nel modo di fare musica.
È un album in stile U2? SI.
È un lavoro che cambierà la storia della band? NO, ma quella dei collezionisti si, dato che, a oggi, sono uscite almeno 8 versioni di vinili, e tre del box.
Morale: parità fra SI e NO.

Ergo… per chi scrive, è un buon lavoro, non c’è che dire, che solleva dubbi non tanto sulla musica degli U2, ma su chi l’ascolta. Questo è il merito dell’arte, della musica e dei grandi artisti. Ricordiamolo, Picasso era solito sottolineare che l’arte deve bucare gli occhi. E Bunuel, nel suo “Un chien andalou” del 1929, taglia un occhio per farci capire, in modo chiaro ed evidente, cosa deve saper fare la vera arte.
Dunque, propendo per il SI, è un bell’album, da avere (scegliete voi la versione), e da ascoltare non con pregiudizi, ma con onestà.

La band, lo sappiamo – spero! – non è più quella degli anni ’80 e ’90. Già nei 2000 c’era da dire. Ma è sempre stato così, e in questo la ricostruzione dettagliata di Daniele Funaro nel suo libro (la nostra recensione) è preziosa, perché ai tempi di “Rattle and Hume”, furono accusati di esser troppo Blues e, dunque, di non saper fare davvero il Blues e scimmiottare chi lo sapeva fare (attenzione, chi diceva questo, oggi forse è fra chi critica questo ultimo lavoro…). Poi, dal 1991 al 1997, si è sentito di tutto e di più. Perché questi sei anni sono quelli che vanno da “Achtung Baby” al criticatissimo “Pop”, passando per “Zooropa” (attenzione, chi criticava questa svolta innovativa, oggi forse è fra chi critica questo ultimo lavoro…). Poi ci fu il ritorno al Pop commerciale, e furono baci e furono sorrisi, come dice l’altro Poeta (attenzione, chi criticava la svolta troppo pop, oggi forse è fra chi critica questo ultimo lavoro…).

E non dimentichiamo le accuse per la mancanza di un live ufficiale (se non fosse per quel mini “Under a Blood Red Sky” e quel poco che c’è in “Rattle and Hum”… oppure servono altri canali, dai dvd alle playlist, passando per i live rilasciati solo agli iscritti al fan club ufficiale). Oltre alle polemiche per il fatto che, negli anni ’90, gli U2 non fecero un unplugged, mentre tutti lo stavano proponendo (attenzione, chi criticava tutto questo, oggi forse è fra chi critica questo ultimo lavoro…).

Perché tutto questo lungo passaggio? Perché “Songs of Surrender” è, a suo modo, una svolta; ci mostra come Blues e Pop sono sempre state riduzioni strette per la band; è una innovazione nell’attuale produzione degli U2 e, per certi versi, è quell’unplugged che ci mancava. Vedremo, nel dettaglio ma senza tirarla lunga, il perché di tutto questo. Si tratta di una svolta per un semplice motivo. Gli U2 prendono atto che il tempo passa, e che Bono non ha più la voce di quando aveva 30 anni. Ha voce, e chi lo ha sentito dal vivo nell’ultimo tour lo sa bene (e chi scrive è fra quelli), ma non è più per timbrica ed estensione quella di quei tempi andati. Il discorso è onesto, come lo fu per Robert Plant nel 2007. Quindi, la morale è che una grande band prende atto e rimette in gioco se stessa, e la sua stessa storia.

O forse si volevano enormi cofanetti con scarti di lavorazione, o live ricicciati dell’epoca? La moda è quella, ma ha un senso per Dylan (Nobel per la letteratura), e per Zappa (Nobel per la musica, se mai ci fosse stato), ma per altri è ormai stucchevole. E comunque, c’è ed è stato fatto per “Achtung Baby” (magari si facesse la stessa operazione per “Pop”…). Allo stesso modo, l’abbiamo capito: o si fa come gli Stones, e cioè si pubblica con certosina dovizia di ordine cronologico, i vari live, oppure meglio lasciar perdere. L’altra onesta soluzione, che nel panorama nostrano stanno facendo in molti, e fra gli ultimi i Gang (la nostra recensione), è riportare a casa per evitare che accordi passati portino via… Ed è quello che hanno fatto gli U2, hanno riportato a casa le loro canzoni.

Non potendo parlare di 40 brani ben noti e storici, possiamo solo far una sintesi veloce per rimarcare quello che i veri fan sanno da tempo: Blues e Rock non bastano a definire gli U2. E così le canzoni scarificate (come si fa con l’asfalto) di questo album, non tutte come già detto, mostrano come restino ugualmente grandi canzoni. “The Fly” bella era, e bella resta; “Stay”, “Until the end of the world”, “Who’s gonna ride your wild horses” idem, ed era difficile o no? Dato che sono brani fra i più ricchi di sonorità. O c’è qualcuno convinto che sia come per i miei amati AC/DC che, tolti gli effetti sonori di Angus, la sua verve, e rallentate, le canzoni non siano tutte uguali? Beh qui, in questo lavoro c’è la possibilità di ascoltare come le canzoni degli U2 non siano tutte uguali, non siano tutte blues, e neppure tutti brani solo pop. “Beautiful day” e “Vertigo”, singoli da réclame, mostrano la loro natura. I brani degli ultimi due dischi – “Songs of Innocence” e “Songs of Experience” – diventano finalmente musica molto buona. Poi certo, non tutte le scarificazioni sono venute bene: “Desire” è decisamente inferiore all’originale, “Pride”, ma davvero non vi è piaciuta? Davvero? “Where the streets have no name” ok, grida vendetta, ma di certo “One” no!.

Sul fronte dell’innovazione, direi che gli U2 hanno deciso di mettersi in pace con quello che non riescono più a fare con le nuove canzoni. Comunicare il loro modo d’essere attuale. Tutti restano legati al passato, ed è questo il problema. Gli U2 nel futuro ci sono già stati, dal 1991 al 1997. E con loro non c’era nessuno. E come loro non c’era nessuno. O vorremmo un bel brano rap o trap di Bono? Vi ricordo che “Numb” l’hanno già fatta, e remixata in tutte le salse. E allora meglio scarificare e far vedere come stanno in piedi le canzoni. Anche senza tutti gli orpelli. Perché poi di questo si parla, di canzoni. Se non riesci più a farne di belle, perché per gli ultimi due album quello che c’è di buono è quanto messo in questa raccolta, e non di più, allora meglio lavorare con onestà su quanto fatto, mostrando come si opera su un brano. Cosa si aggiunge, cosa si toglie e cosa si mette. L’idea è buona. L’avesse fatta Bowie, si sarebbe gridato al miracolo…

Infine, fra queste 20 tracce c’è quell’unplugged tanto atteso. “Walk on”, “11 O’clock Tick Tock”, “Out of control”, “Bad” cosa sono in queste versioni? Le altre a voi scoprirle… Manca, ve lo anticipo, “The Unforgettable Fire”, con grande dispiacere, “Mlk” e “October”. Amen. Ci faremo bastare le altre 40.

Articolo di Luca Cremonesi

Tracklist “Songs of Surrender”

Side 1: The Edge

  1. One*
  2. Where The Streets Have No Name*
  3. Stories For Boys*
  4. 11 O’Clock Tick Tock*
  5. Out Of Control*
  6. Beautiful Day*
  7. Bad*
  8. Every Breaking Wave*
  9. Walk On (Ukraine)
  10. Pride (In The Name Of Love)*

Side 2: Larry

  1. Who’s Gonna Ride Your Wild Horses*
  2. Get Out Of Your Own Way*
  3. Stuck In A Moment You Can’t Get Out Of*
  4. Red Hill Mining Town
  5. Ordinary Love*
  6. Sometimes You Can’t Make It On Your Own
  7. Invisible*
  8. Dirty Day
  9. The Miracle Of Joey Ramone
  10. City Of Blinding Lights*

Side 3: Adam

  1. Vertigo*
  2. I Still Haven’t Found What I’m Looking For*
  3. Electrical Storm
  4. The Fly*
  5. If God Will Send His Angels
  6. Desire*
  7. Until The End Of The World*
  8. Song For Someone*
  9. All I Want Is You
  10. Peace On Earth

Side 4: Bono

  1. With Or Without You*
  2. Stay
  3. Sunday Bloody Sunday*
  4. Lights Of Home*
  5. Cedarwood Road*
  6. I Will Follow*
  7. Two Hearts Beat As One*
  8. Miracle Drug*
  9. The Little Things That Give You Away
  10. 40
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