Tutto parte da qui, da Robert Johnson. “Il diavolo, probabilmente”, edito da Il Saggiatore con la traduzione (ottima) di Marco Bertoli, è uscito in Italia nel novembre del 2024. Scritto da Bruce Conforth e Gayle Dean Wardlow, è un saggio ricco che traccia una mappa ben definita del mistero più affascinante della musica contemporanea.
Il Blues, e con esso il Rock e i suoi derivati, hanno origine nel Sud degli Stati Uniti, in quel mondo rurale e violento, caratterizzato dalla schiavitù, una delle pagine più buie del grande affresco dell’umanità. Qui, dove storia e mito, oltre a leggende e tragiche esistenze, si sono fuse insieme, ha trovato patria l’epopea di una narrazione in cui la realtà ha superato qualsiasi fantasia. Robert Johnson, nato nel 1911 e morto nel 1938, dando così origine al Club dei 27, un’altra grande narrazione maledetta della musica contemporanea, è stato il giusto personaggio per essere il protagonista di questa storia.
Di lui si sa tutto, ma in realtà non si sa nulla. Bruce Conforth e Gayle Dean Wardlow partono da qui. Il viaggio, perché questo libro di fatto è una guida in un mondo reale, e non fantastico, e nei luoghi e fra le persone che, per via diretta o indiretta, Johnson ha incontrato. Ne deriva una narrazione dettagliata, tra documenti, fotografie e testimonianze, e allo stesso tempo magica, perché le carte più semplici mancano, non ci sono, o perché non sono mai esistite? O perché sono scomparse? Non lo sapremo mai, ma di certo c’è che questa storia mostra chiaramente come tutto ciò che è popolare non abbia mai avuto giusto spazio, un tempo, nella storia con la “S” maiuscola. Johnson, come d’altronde chi, con lui, dava vita a una musica che, prima di tutto, era testimonianza di una vita umiliata e offesa, non aveva spazio negli annali di nessuna istituzione. L’unica possibilità era quella di esondare nel mito, nella leggenda, nel “si dice…”.
Un mondo brutale, dove la violenza dominava, e con essa la fatica, e dove la religione e la tradizione popolare erano gli unici antidoti, poveri, in mano al popolo. Da qui, dunque, il contro-altare o, come insegna Dante, un contrappasso necessario. Il diavolo, il demonio cristiano che, per eccellenza, ovvia a un Dio che, di fatto, rende tutto possibile, compresa la schiavitù, ma solo come redenzione in un mondo futuro. Johnson appare, e già questa sua gettatezza nel mondo è avvolta nel mito, in confini non chiari. Famiglia fluida, si direbbe oggi, dettata non da condizioni di genere, ma da realtà sociali che rendono e classificano uomini e le donne in serie B, e solo per il colore della pelle. Gli autori cercano di ricostruire i confini, con atti e documenti, ma di quella storia, come insegnano i nazisti che scappavano dai famigerati campi, non si deve lasciare traccia. Poche carte attestano l’esistenza in vita di Johnson e della sua famiglia, che, tra l’altro, era allargata e non tradizionale, caratteristica affidata solo ai bianchi, non di certo ai neri.
Come sfidare tutto questo? Con il diavolo dalla propria parte; quel demonio che spaventa l’uomo bianco, timorato di Dio, ma capace, in terra, di atrocità nel suo nome. La leggenda del crocicchio, delle quattro strade dove Johnson avrebbe appreso, con un patto con il diavolo, l’arte delle sei corde che, poi, diventa marchio di fabbrica del suo suonare e di un genere, cioè il blues del Delta, quella musica che sarà apripista di tutto quello che succede nei decenni successivi, è fondativa. D’altronde, un nero non poteva essere bravo di suo… Bruce Conforth e Gayle Dean Wardlow raccontano bene, nei capitoli centrali, quanto questa narrazione sia necessaria a un artista che, a differenza di quelli a noi contemporanei, non ha avuto a disposizione artifici e tecnologia per emergere. Anzi, quando è stata l’ora della consacrazione, Johnson non si è sottratto al grande palcoscenico perché, per citare esempi attuali, “si preferisce far gavetta”, o “serve tutelare il proprio pubblico”. No, Johnson non arriva alla Carnegie Hall, nel 1938, perché, nel frattempo, è morto.
Nasce così la seconda leggenda, la morte misteriosa, forse violenta. Il mito si viene a costruire, e ben si struttura. Diavolo, morte prematura e, forse, assassinio, da parte di donne (ovvio), uomini gelosi di donne (ovvio) o, forse, nella declinazione moderna, a causa di una società che non è al passo dell’artista. Un refrain che si ripeterà, nei decenni a venire, con piccole variazioni, ma con un unico filo conduttore: la vita, quella vissuta, è sempre più semplice di quello che si vuole narrare. Bruce Conforth e Gayle Dean Wardlow lo fanno capire bene, raccontando ambiente, luoghi, uomini e idee di un’epoca precisa. Nel finale c’è riportato e tradotto il commento apparso sul documento di morte, testo importante, trovato e recuperato in polverosi archivi salvati dalla sistematica distruzione. Basta leggerlo con attenzione per capire quanto questi uomini, che hanno vissuto in un’epoca tragica, abbiano avuto solo nella narrazione la possibilità di salvarsi. Oltre che, ovviamente, nella loro musica, che ha rischiato grosso però, ed è stata anch’essa messa nelle mani, piene di sangue, dei bianchi.
Un ultimo mito vede in Johnson il patriarca. Quello della vita del musicista contemporaneo, fatta di sesso, droga (alcool alla sua epoca) e Rock ’n Roll (ma ancora e solo Blues, a quel tempo). Oltre al viaggio, al movimento. Insomma, il Johnson reale, che Bruce Conforth e Gayle Dean Wardlow ci restituiscono con ricchi particolari, e un apparato di note splendido, supera quello della fantasia, che serve però per fondare e alimentare miti e leggende. Che si sono espanse. Che hanno travalicato i confini. Che hanno reso giustizia, nel mito, nella narrazione, a quello che, nella realtà, non ha avuto niente, neppure l’onore di una documentazione ufficiale certa, e ben conservata. Un libro magnifico, per davvero.
Articolo di Luca Cremonesi