Sinceramente mi chiedevo quando sarebbe riapparso questo graphic novel splendido, che racconta in modo diretto, e senza moralismi, la formazione di Kurt Cobain. Il volume di Danilo Deninotti (disegni) e Toni Bruno (testi) “Kurt Cobain Quando ero un alieno” (Feltrinelli, 19 euro) è infatti la fedele ristampa, con l’aggiunta della prefazione di Davide Toffolo, dello stesso volume uscito nel 2013 da BD.
All’epoca, e cioè all’alba del ventennale della morte del leader dei Nirvana, era forse troppo presto. O meglio, il mondo del graphic novel non aveva ancora fatto breccia. O meglio ancora, quel modo di fare graphic novel non era ancora decollato. Poi, sempre in quel periodo, uscì una ben più blasonata monografia di Tuono Pettinato, autore di graphic che se ne è andato troppo presto. Il suo volume – per la cronaca “Nervemind La biografia” fece cappotto, conquistando, senza nulla rubare a nessuno, gli albori delle cronache. Non solo, il suo disegno divenne un’altra ed ennesima icona del Nostro. Tutto questa esposizione fece navigare in modo sotterraneo il volume di Deninotti e Bruno.
Peccato, perché questa è una storia davvero ben costruita. Non toglie nulla all’opera di Tuono Pettinato, e questo deve essere chiaro. Si tratta di un altro taglio, di un altro sguardo sulla stessa vicenda. E che sguardo. I due autori, infatti, indagano nell’infanzia e nella prima adolescenza del nostro. Il pregio di quest’opera, oltre ai disegni, è il taglio che propone. Se le cause non sono tutte e solo nell’adolescenza, è pur vero che proprio lì si deve scavare per provare a capire una rabbia e un disagio che hanno portato all’autodistruzione di una delle menti creative più iconiche, pure e pungenti degli anni ’90. L’alieno è Kurt Cobain; la sua astronave, o meglio ancora, il suo mondo è la musica, la chitarra, la camera dove suona. Sentirsi straniero in casa, è cosa già raccontata da Sartre, in modo perfetto.
Qui, però, con Cobain non è solo questione di spaesamento e di non esser in casa propria pur se siamo fra le mura di casa nostra. Il malessere è cosmico, alla Leopardi, e totalizzante, come accade nelle migliori nevrosi. Tutto lo spazio, il tempo, l’ambiente e le relazioni fra queste entità sono oggetto di straniamento. Una sensazione che diventa disagio, che sfocia in una creatività che dà voce all’altro. Solo che quest’altro è sia dentro che fuori di noi, e il tutto allo stesso tempo. Questa natura folle di non sentirsi mai a casa, e di cercare vie di fuga, spazi alternativi, e ambienti nuovi, anche se non lontano dal proprio mondo, sono le concause che portano Kurt Cobain alla ricerca di quell’evasione, in primis, e poi in quel modo d’essere che caratterizza la sua musica, il suo grido e la sua esistenza.
Prima di essere il frontman dei Nirvana, Kurt Cobain è stato come tutti un bambino. Un bambino sensibile, talentuoso, con una famiglia conflittuale. E poi è stato un ragazzo, cresciuto nella provincia americana tra altri ragazzi incasinati, esclusi, inadatti. Alieni, come lui. Kurt era convinto di essere sceso da un’astronave e che un giorno avrebbe incontrato i suoi simili. Extraterrestri che sarebbero venuti a salvarlo. Creature destinate alla solitudine, ma allo stesso tempo unite da un’abbagliante passione per la musica. E così è stato, ma forse non nei modi e nelle modalità che l’adolescente Cobain sperava.
Noi che leggiamo il graphic, e che sappiamo come sono andate finire le cose – quanto meno nel lato reso pubblico – sappiamo che gli alieni, quelli veri, ben presto presero il loro posto nella vita di Cobain. Mostri veri, alla Dylan Dog di Sclavi, e cioè le persone prossime. Il mondo della musica arriva in modo dirompente, non bussa alle porte, e si trasforma in una vera invasione degli ultra corpi: successo, grida, eccessi, liti, stramberie, e tutto in soli 90 mesi, a conti fatti.
Che Cobain fosse un alieno è cosa nota, ma che fosse il meno straniero in una terra di conquista, dove bande di predoni – più che di alieni – si muovevano libere e selvagge, non era chiaro a tutti; nemmeno a lui. Anzi, forse era quella galassia non così lontana che spaventava Cobain, il Cobain adolescente cresciuto (chissà) che desiderava fare musica, farsi ascoltare, ma non per forza adorare.
Il graphic novel di Deninotti e Bruno riesce a raccontare questa storia, quella cioè di un giovane attraversato da disagi che non vogliono essere megafono per nessuno, ma voce da ascoltare. Ed ecco il grido, le grida, il ruvido Grunge. Solo che quegli alieni, ben presto, hanno preso in mano le redini non di un loro simile, ma di un vero altro. Il risultato è che Cobain è stato portato al centro di una galassia aliena, perché senza coordinate, che a conti fatti era ben peggio del (suo) mondo che Cobain cercava di cambiare, da alieno appunto, e di modellare a sua immagine, ma non somiglianza.
Un fumetto ben fatto, che è anche un’indagine sull’animo umano, e soprattutto, di quello di chi, come Cobain, è alieno, dunque davvero straniero, non in una terra lontana e distante, ma qui vicino a noi. Intercettare queste forme di vita è nostro compito; lasciare vivere come alieni, chiuse e distanti, è una scommessa. Cobain, purtroppo, l’ha persa. Quella con la vita, ovviamente…
Articolo di Luca Cremonesi
