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Kurt Cobain “Territorial Pissings”

Testo che non deve mancare nelle case di chi ama la musica contemporanea

“Territorial Pissings – L’ultima intervista e altre conversazioni” di Kurt Cobain (traduzione di Assunta Martinese), pubblicato da Minimum Fax nell’aprile del 2024, è un testo che non deve mancare nelle case di chi ama la musica contemporanea. Non che in queste pagine ci siano verità particolari sul mondo delle sette note; e tanto meno rivelazioni su come i Nirvana hanno costruito i loro tre capolavori. Niente di tutto questo. Le interviste raccolte in questo volume servono a capire l’uomo Kurt Cobain, per liberarlo dal grasso fetore che gli è stato gettato addosso dopo il suo gesto finale; quel suicido che ha troncato la sua esistenza nel 1994.

Trent’anni esatti nel 2024. Nei giorni della sua celebrazione, esce questo volumetto agile – 116 pagine di piccolo formato – che raccoglie le interviste del leader e fondatore dei Nirvana, compresa l’ultima sua conversazione, rilasciata l’11 febbraio del 1994. Molto interessante la chiusura, e cioè le ultime parole pubbliche del Nostro. Eccole:

Quanto ti piace fare il padre di famiglia?
È più importante di qualsiasi altra cosa al mondo. La mia musica è quello che faccio; la mia famiglia è quello che sono. Quando tutti avranno dimenticato i Nirvana, io sarò in un tour nostalgico ad aprire i Temptations e i Four Top, Frances sarà ancora mia figlia e Courtney sarà ancora mia moglie. Questo per me conta più di qualsiasi altra cosa.

Ora capite perché il libro vada letto. E non solo da chi ama i Nirvana. Dentro a queste pagine c’è il Kurt Cobain che tutti abbiamo dimenticato. O meglio, che forse non c’ha mai interessato. Serve ricordare che la sua parabola si consuma in pochi anni; agli albori di uno star system che lui stesso rigettava, e dal quale è stato assorbito. Un mondo che era a metà fra il delirio, a venire, dei Social, e quello della comunicazione gossippara. Il risultato? Lo dice bene Kurt in una delle interviste riportate nel volume. Riassumo, ma questo è il senso. La stampa racconta quello che serve a fare spettacolo. Così Cobain diventa il catalizzatore di paure, angosce ed esistenze che sono andate ben oltre la vita spericolata e gli altri libertini. Tutto si condensa su questo giovane secco, biondo, vestito in modo trasandato, che grida e non canta, e che propone, con pochi amici, l’ultima grande rivoluzione della galassia del Rock.

In tutto questo ci siamo persi, e vado a braccio, perché sono le parole di Cobain che ci raccontano, nelle otto interviste raccolte in questo volume, che amava i Beatles, e in particolare modo John Lennon, e i R.E.M.; che non amava la musica di Bon Jovi, dei Guns N’ Roses; che ascoltava “Led Zeppelin II” e “Back In Black”; che amava le armi, e in casa aveva pistole cariche e M16, da buon statunitense pronto a difendere la famiglia. E ancora, un Cobain che amava sua moglie, o meglio, l’idea di avere una moglie e una compagna stabile; che adorava la figlia e fare il padre; che soffriva il pubblico delle grandi sale e voleva suonare nei piccoli locali; un uomo che non amava le interviste e la politica, pur se era vicino a certe cause, che aveva sposato con il suo gruppo.

Al netto di tutto questo, ma c’è dell’altro ovviamente in queste pagine, vale la pena ricordare che nelle interviste del 1993 e del 1994 emerge chiara una questione: i Nirvana avrebbero presto smesso di essere i Nirvana. Per Cobain l’era grunge si era chiusa con “In Utero”. Quell’album aveva prosciugato i cassetti, e dentro non c’era più nulla. Lo dichiara in una delle ultime conversazioni, e cioè che avrebbero dovuto mettersi la lavoro per fare qualcosa di radicalmente diverso. L’epopea grunge era finita. All’orizzonte Cobain vedeva un’evoluzione rock, con tratti sperimentali, con una non celata attenzione a suoni psichedelici. Il tutto, però, da strutturare dato che, come è noto e come viene ribadito, nessuno dei tre Nirvana sapeva nulla di musica.

Ascoltiamo le sue parole.
Sai, sembra che un po’ si chiuda un capitolo, la fine della formula che abbiamo usato finora. È come se ormai il grunge ci annoiasse un po’. Non è che lo rinneghiamo, e non smetteremo di fare i vecchi pazzi in concerto…. Però, ecco i nostri gusti stanno cambiando molto in fretta, e stiamo iniziando a sperimentare. E forse ci stiamo facendo prendere la mano, e il prossimo disco sarà imbarazzante. Ma non possiamo far uscire un altro album uguale, quindi questo per noi è l’ultimo capitolo del grunge con tre accordi.

Non posso andare avanti anni a gridare sui palchi, si legge più volte in queste interviste. Quella rabbia, quella che ha spinto le vele dei Nirvana, era arrivata alla fine. Forse, allora, ha ragione chi ha letto nel suo gesto estremo la voglia di non realizzare questo desiderio, e cioè di restare per sempre il Cobain del grunge, l’angelo maledetto della Generazione X, come hanno scritto in tanti in occasione del trentesimo anniversario da quel gesto estremo. Non sono così sicuro che questa sia la chiave giusta di lettura. O meglio, forse lo è, se ci atteniamo a quanto disponibile nel mondo musicale: dai dischi ufficiali alle celebrazioni postume, con tombaroli d’archivio che stanno spremendo fino all’ultima goccia di sangue del Nostro.

Da queste interviste emerge, però, un uomo diverso. Di certo non calmo e pacato, questo è vero. Appare un figlio della sua epoca, in piena crisi anni ’90, buttato in un mondo che lo vuole come ha deciso che debba essere questo personaggio. Il successo, sarebbe dunque il male oscuro che lo ha ucciso? Di certo non è il successo che tira il grilletto, perché quello lo fa sempre una mano, dietro alla quale c’è una mente. Ma che quell’onda abbia travolto un alieno, come è stato ben descritto nella graphic novel di Danilo Deninotti e Toni Bruno, è senza dubbio vero.

In sostanza, la soluzione all’enigma c’è in queste interviste? No, e ne sono felice. Perché è ora, dopo 30 anni, che si cominci a lasciare in pace il Cobain uomo, umano, troppo umano, e ci si concentri sulla sua arte, separandola dal gesto estremo. Non sapremo mai cosa è passato in quella testa, perché le menti sono mondi e sono monadi, e nessuno ci può entrare. Resta però la sua arte, e a quella serve guardare. Pertanto, credo che la chiusura più bella per questa recensione sia da affidare alle sue parole.

Non siamo riusciti a mostrare il lato più leggero, più dinamico del nostro gruppo. I ragazzi vogliono sentire le chitarre pesanti. E a noi piace suonare così, ma non so per quanto tempo ancora posso continuare a sgolarmi in quel modo ogni sera, per un anno intero, in tour. A volte vorrei aver preso la strada di Bob Dylan, e cantare canzoni in cui non perdo la voce ogni sera, così volendo avrei potuto avere una carriera.

Articolo di Luca Cremonesi

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