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Massimo Cotto “Il Rock di padre in figli*”

Immersione nella storia e nell’anima di un genere musicale che ha segnato la cultura contemporanea

Un volume ricco, scritto bene e che afferma un concetto semplice: il Rock ti sorregge quando hai bisogno, è complice, compagno di viaggio. Per dire tutto questo il prolifico Massimo Cotto, giornalista che vanta una carriera invidiabile, con la sua ultima pubblicazione, e cioè “Il Rock di padre in figli*” (Gallucci, novembre 2023 – 16,50 euro), ha scritto un testo di facile lettura, ma non per questo superficiale. Anzi. Lo dico da insegnante, e non da padre, si tratta di pagine che andrebbero fatte leggere a scuola, sempre che ormai in quell’Istituzione la lettura abbia ancora un senso. Attenzione, in questa frase ammetto l’esistenza di un concorso di colpa.

Un tempo, affermare che un qualcosa andasse fatto vedere, o leggere, a scuola, era un attestato di stima; una medaglia che si aggiungeva al valore intrinseco di una singola opera (in questi giorni, Natale 2023, lo si dice del bel film di Paola Cortellesi). Oggi, a dire quella frase, si rischia grosso. Equivale a condannare all’oblio un qualsiasi prodotto. Non perché la scuola sia un luogo di perdizione, ma perché si è voluto che diventasse un ambiente dove tutto si fa, tranne che promuovere cultura. Se non con azioni di resistenza…Ergo, a far leggere un libro si rischia di non trovare spazio fra i mille progetti che si devono – sottolineo, devono, come una sorta di imperativo categorico al contrario – portare a termine, oltre al naturale declino – ma questo è un motivo che dura da oltre 30 anni – della lettura come pratica degna di attenzione.

In realtà non è del tutto vero che i giovani non leggono. I giovanissimi (dai 14 ai 25, usiamo questa banda larga), leggono tanto, dai fumetti a vari generi letterari. Il problema, semmai, è dai 25 anni in poi. Non so se i giovanissimi – parlo per esperienza – abbiano giustamente voglia di consigli, in quella fase d’età, e se siano interessati a leggere questo tipo di volume.  Il fatto, più che il libro in se, come vedremo, è legato alla questione che la musica, per le nuove generazioni, non è più un fatto collettivo; non è più collante, e non è più sognare e/o lottare per un mondo migliore. A conti fatti, c’è una distorsione di fondo in questo bel libro che, scritto per il figlio Francesco, 16enne che, come tutti i suoi coetanei, ascolta la musica di questi anni, rischia di essere però un testo adatto a noi, e cioè persone che si collocano fra i 40 e i 60 anni.

Il perché, come affermato poco fa, è presto detto. Che la musica, e il Rock in particolare, sia un’esperienza collettiva, è ormai cosa che ha senso solo per la fascia d’età che va dai 40 anni in su. E per pochi giovani, ma davvero pochi, che, quando si entra per esempio in una classe, si identificano facilmente. Non di certo per l’inganno di felpe con il logo di AC/DC o Nirvana, ormai sdoganati come outfit di moda. Mi riferisco – e parlo a ragion veduta, dato che ne discuto con i miei studenti e le mie studentesse – al fatto che il modo di fruire che le nuove generazioni hanno della musica ha influito sullo stesso oggetto, e sui suoi contenuti. Questo aspetto, ma non è affatto una colpa, Cotto non lo affronta di petto. O meglio, si intuisce che è ben consapevole della cosa, ma in nel volume il giornalista non scava in profondità. Non si scontra, insomma, con la realtà dei fatti. Certo, il pregio di “Il Rock di padre in figli*” , ed è anche una delle grandi doti di Massimo Cotto (che gli invidio, in modo sano), è nel valore della narrazione. La musica e i suoi protagonisti, uomini o donne che siano, hanno storie che sono degne di essere raccontate. Basti pensare al volume di Barbara Baraldi (la nostra recensione). Massimo Cotto è da sempre un maestro nel raccontare le storie del Rock, proprio come un tempo si narravano i miti degli eroi, sempre giovani e belli. In questo aspetto, lui non è secondo a nessuno, e tutti e tutte noi abbiamo solo da imparare.

La narrazione di aneddoti è preziosa anche in questo libro. Il giornalista spazia a 360°. Anche se, giustamente, non entra in tutti i rivoli del grande estuario del Rock, resta comunque capace di generare quella necessaria curiosità che, mentre leggiamo le sue pagine, ci porta a cercare testi, dischi e approfondimenti. Ne deriva che il libro in questione si deve leggere continuando a cercare, una volta che si è terminato il capitolo, ulteriori informazioni. Dato che questo è uno degli intenti dichiarati del volume, si può dire che Massimo Cotto ha fatto centro. Credo poi che suo figlio Francesco, dato l’ambiente stimolante nel quale è cresciuto – Sartre, fra gli altri, insegna che non si può mai evitare il contesto di ciò accade – non possa che trovare giovamento da questo libro che, a tutti gli effetti, è un prezioso testimone che suo padre gli passa, e che si aggiunge a dischi autografati, foto ricordo, e a tutto quello che, ovviamente, non c’è stato dentro al volume.

Walter Benjamin, filosofo troppo spesso dimenticato e relegato solo agli ambienti accademici, ricordava, già all’inizio del ‘900, che abbiamo perso la capacità di fare esperienza. Lo diceva in tono tragico, legando il tutto all’avvento della riproducibilità tecnica nel mondo dell’arte. Oggi non oso immaginare cosa scriverebbe, dato che far vedere in una classe un film in bianco e nero è diventato impossibile, come provare a far ascoltare, per intero, un album, anche di quelli che cita lo stesso Cotto e che, a più riprese, consiglia al figlio di prendere seriamente in considerazione (io ci provo, quando tratto la Grande Guerra, con gli album di Bubola, e posso testimoniare quanta fatica si faccia). Se lui rilancia – nel senso che il termine ha nel poker – questo al figlio, figuriamoci chi non ha in casa un padre come Cotto.

Detto in altri termini, ed è quello che si affermava già in precedenza, la capacità di fare esperienza della musica oggi è cambiata, e con essa il valore della stessa arte delle sette note. Ed ecco che “Il Rock di padre in figli*” è più per noi, che abbiamo fra i 40 e i 50 anni, e che sappiamo che, fra pochissimi anni, il rito collettivo di un grande live, come quello di Imola degli AC/DC (Cotto racconta la gioia di aver visto le persone che correvano sotto il palco; mentre io ero una di quelle…), non ci sarà più.

Anche l’autore del libro, pur se in modo diplomatico, lo lascia trasparire, quando afferma quello che tutti sanno, ma nessuno dice. E cioè che la differenza la fa sempre la durata nel tempo. Gli artisti di cui tratta, dai Rolling Stones a Tom Waits (bel capitolo), dagli Who a Jimi Hendrix, da Robert Plant a Springsteen, e così via, hanno saputo produrre arte e superare i limiti di spazio e tempo, e cioè, andare oltre un mercato che, senza dubbio, si è nutrito di loro, ma le regole, in gran parte, le ha dettate in primis sempre e solo la loro arte (un esempio su tutti? Lo cita anche Cotto, quello di “Bohemian Rhapsody” – la canzone, non il film…).

Oggi la cosa è diversa. La musica è oggetto di consumo, è chiaro ed evidente. Basta andare in un grande raduno – e Cotto ne frequenta molti, e lo sa bene – per capire che, dai token alla divisione in pit (che lo stesso giornalista fa capire di non amare), tutto è fatto per essere consumato. Tranne per le emozioni, e quelle sono il vero motore di “Il Rock di padre in figli*” . Traspaiono nella narrazione di Massimo Cotto, in modo evidente, che le lascia fluire libere. Questo è senza dubbio un libro per il figlio Francesco, ma soprattutto per noi che non abbiamo avuto la possibilità di intervistare e parlare con i grandi del Rock, come ha fatto Cotto, Favij compreso (chi leggerà, capirà), ma che però abbiamo provato, e proviamo ancora, le sue stesse emozioni. Ecco il valore del testo che stringerete in mano, e non è cosa da poco in un mondo fatto, ormai, solo di mercato, nel quale, spesso, si può anche interagire, via social, con l’avatar del proprio idolo.

Allo stesso tempo, Massimo Cotto, come Asimov per la robotica nella Fantascienza, detta le tre regole del giornalismo musicale: farlo per ascoltare solo ciò che appassiona – se diventa un lavoro, meglio lasciar perdere; separare sempre arte da artista, legge da scrivere a caratteri cubitali – speriamo che venga preso seriamente in considerazione, dato che Foucault, che lo teorizzò nella sua lezione inaugurale al prestigioso Collège de France, non è mai stato ascoltato da nessuno – e da sottoscrivere; i numeri di vendita non hanno a che fare con il valore dell’artista e della sua produzione, si veda Nick Drake, uno su tutti.

Altro aspetto molto interessante in “Il Rock di padre in figli*” è la lettura del succedersi dei sottogeneri del Rock. Si sa, il critico vero non è chi scrive, ma chi fa. La più grande critica all’Impressionismo è il Cubismo, per esempio. Stessa cosa nella musica, e Cotto sposa questa posizione: il Punk è la critica al Prog, il Brit Pop al Grunge e così via. Ottima lettura, se non fosse per Elvis che, di fatto, andrebbe detto, è la risposta bianca al nero che non può fare le mosse sexy in tv. Come oggi, in molti negozi e attività, i migranti è meglio che stiano nelle retrovie. Su questo passaggio, quello cioè dell’avvento di Elvis, Massimo Cotto scorre via (troppo) velocemente. Fa bene, il volume, e lo ricorda più volte, non è una storia del Rock, ma un atto d’amore e di descrizione di una passione. Ma dato che si è usato, per tutte le altre pagine, quel metro… valeva la pena fare un accenno al perché il bianco sexy vince sui neri che, da decenni, facevano la stessa (migliore) musica.

In conclusione, un libro da avere sul comodino, più che da far leggere a scuola, per ricordarci sempre che la musica, comunque vada, è passione, ed è una forma d’arte che dovrebbe contribuire a rendere l’umanità migliore. Detto in altri termini: It’sonly Rock’n’Roll (but I like it).

Articolo di Luca Cremonesi

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