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Nick Cave e Seán O’Hagan “Fede, speranza e carneficina”

Qui si può leggere della creazione artistica, e di come avviene fra le mani di uno dei più grandi artisti della musica contemporanea

Non leggerete, quest’anno, libro più bello, intenso, ricco e prezioso del presente volume. A dir la verità, il testo è disponibile nelle librerie dai primi giorni di ottobre del 2022, ma l’accumulo sul comodino ha fatto sì che arrivassi a leggerlo solo ora. Il problema è che si tratta di un libro buco-nero, e cioè che fagocita tutto quello che state leggendo d’altro. Non potrete fare a meno, in definitiva, di consultare queste pagine. E solo queste. Difficile che esca un altro testo di tale portata. Libri così belli sono rari. Sono pronto a sfidare la sorte, senza nessun timore di smentita.

Il volume “Fede, speranza e carneficina” di Nick Cave e Seán O’Hagan, tradotto da Chiara Spaziani, edito da La Nave di Teseo, è una vera bomba a orologeria che esploderà nelle vostre mani. Sinceramente non capisco come mai la casa editrice di Elisabetta Sgarbi non abbia investito in modo pesante su questo libro, come accade invece per altri titoli di musicisti italiani e che, pur se interessanti, hanno decisamente un peso specifico meno importante di questo testo. Le conversazioni che compongono questo volume, infatti, sono un trattato d’Estetica, nel vero senso della parola. Qui si può leggere della creazione artistica, e di come avviene fra le mani di uno dei più grandi artisti della musica contemporanea, e cioè Nick Cave.

Quasi 400 pagine, per un totale di quindici conversazioni, nelle quali si parla davvero di quello che si enuncia nel titolo. La fede, come dimensione esistenziale; la speranza, come necessità di redenzione; e la carneficina, e cioè la pandemia che tutti abbiamo vissuto, e che Cave ha affrontato nel mezzo della tragedia più grande che possa capitare a un padre e a una madre: la morta del figlio Arthur. Il tutto legato e collegato insieme in una proposta musicale che diventa non arte-terapia, ma espressione ed estrinsecazione di un sé nel mondo. Ripeto, questo è un libro da avere, da leggere tutto d’un fiato, per poi riprenderlo nelle mani continuamente.

Non aspettatevi di trovare in questa pagine la vita Rock’n’Roll del grande autore di origini australiane, e neppure la sua lunga e interminabile serie di eccessi, quelli per intenderci degli inizi della sua carriera (ci sono accenni, ma servono per altri scopi), e neppure il gossip tipico delle vite delle rockstar. Non è, insomma, come abbiamo raccontato in passato, un volume come quello dedicato ai Led Zeppelin (la nostra recensione), ma è più un libro intimo, carsico, che scava nelle viscere; allo stesso tempo riflessivo e ricco di spunti filosofici, nel senso di concetti da pensare. È un testo, per trovare un riferimento, che è nella scia di quanto proposto da Bono (la nostra recensione). In sintesi, è un trattato esistenzialista che non sfigura affatto negli scaffali dei testi di filosofia. Anzi, se lo avesse scritto il grande Albert Camus (Nobel per la Letteratura) queste pagine starebbero bene, e si troverebbero a casa, accanto al suo “L’uomo in rivolta”. Lo affermo senza il timore d’essere smentito, e con cognizione di causa. Pertanto, mettetevi comodi e comode, lasciate ogni lettura che avete in corso, e fatevi trasportare da quella che, di fatto, è una biografia esistenziale. Non è una discesa all’inferno, non preoccupatevi. Non si tratta neppure del lamento di un padre inconsolabile. Tutt’altro.

La morte del figlio, la creazione di “Ghosteen” (album che segna un prima e un dopo nella produzione di Cave), il tour che mai è stato fatto, causa pandemia, fino a “Carnage”, il lavoro firmato a quattro mani (come molte colonne sonore) con il fedelissimo Warren Ellis, sono il motore, anzi, la scintilla che avvia il meccanismo di pensiero di queste quindici conversazioni che, spiega O’Hagan, sono state realizzate tutte durante il lockdown. Un flusso di coscienza, ma anche un ripensamento sull’arte, la vita, la dinamica creativa e, soprattutto, lo stare sul palco. Che Cave sia un autore anomalo si sa; che sia stato dipendente da sostanze stupefacenti è cosa nota; ma che avesse un rapporto così intenso con la fede, l’esperienza religiosa e, dunque, la necessità di una redenzione, non erano dimensioni del tutto note. Qui, in queste pagine, si entra nell’antro di un uomo, prima che di un artista, complesso, ricco, ferito a morte, che però, allo stesso tempo, vuole uscire allo scoperto, tornare a vivere, mettere in circolo energia. Questo è quanto più colpisce delle pagine che avete in mano.

“Ghosteen”, il primo album scritto dopo la morte del figlio (“Skeleton Tree”, infatti, è uscito dopo la scomparsa di Arthur, ma è stato composto prima), è di fatto una lunga preghiera. La sua lavorazione è parte centrale di quasi tutte le conversazioni. Cave si mette a nudo, spiega come ci ha lavorato, cosa abbia voluto dire tornare in studio dopo la tragedia. Allo stesso tempo, Cave ci racconta di un modo di lavorare che nasce dall’ispirazione, dalla presa diretta, dal flusso di coscienza e dalla pura improvvisazione. Una musica che cerca voci, contatto, dimensioni altre, e non per forza trascendenti.

Un tempo si sarebbe detta creazione laica. Cave, però, è chiaro. Non è questione di contrapposizioni. Qui, e riassumo per necessità tre conversazioni che vi lasceranno a bocca aperta per intensità concettuale, c’è invece la ricerca, mai doma, di un dialogo con chi non c’è più, con ciò che resta della presenza, e, soprattutto, con ciò che resta della presenza in noi, condannati a restare qua. Sono pagine dense, non facili. Neppure superficiali.

Per capirci: Ma, in qualche modo, quel senso di morte imminente, con tutti i sentimenti selvaggi e traumatici che comportava, alla fine ci ha impresso questa strana, urgente energia. E ancora: È infatti una cosa comune, ovvero che accade a tutti noi prima o poi. Siamo tutti, a un certo punto delle nostre vite, annientati dalla perdita. Se non lo sei stato finora, lo sarai in futuro – questo è certo. E, ovviamente, se sei stato fortunato abbastanza da essere stato veramente amato, causerai anche tu straordinario dolore agli altri, lasciandoli. Questo è il patto tra vita e morte, ed è la terribile bellezza del lutto. Con queste parole in testa, che vanno macinate, lette e rilette, macerate come il Mate, e messe nel nostro vissuto, rimettete sul giradischi ““Ghosteen”, e capirete tutto.

Di colpo quel lavoro diventerà un disco di presenze, e non di assenze, che qui nel libro vengono declinate come la vita di un padre e di una madre, entrambi creativi ed artisti, che hanno dovuto trasformare un dolore non quantificabile, in energia positiva, capace cioè di far rinascere. Credetemi, dopo aver letto quelle tre conversazioni (sono fra le prime), non ascolterete più quel disco (già capolavoro ben prima di questo libro) nello stesso modo. Allo stesso tempo, tutta la musica di Cave, e il suo modo di stare sul palco, non vi sembrerà più uguale a prima.

C’è anche un aneddoto interessante (non ce ne sono molti in realtà, quindi quei pochi sono gustosi, e inattesi), e cioè come è nata la versione definita di “Waiting for you”, uno dei pezzi più belli di quel disco. In primis, è bello sapere che tutto l’album viene scritto nel laboratorio creativo di Chris Martin, che decide di lasciare a Cave ed Ellis lo studio dei Coldplay, per farli lavorare a “Ghosteen”. E noi stiamo qui a dividerci fra fan, quando in realtà gli artisti sono molto più aperti e trasversali di quanto lo siamo noi, ascoltatori duri e puri. Dovrebbe farci pensare questa cosa…

Poi, tornando al nostro aneddoto, una sera, lo stesso Martin, ascoltando la versione di quella canzone, che aveva in origine un suono di fatto industrial (alla Einstürzende Neubauten, afferma Cave), sonorità che ancora ci sono nella parte iniziale del brano inciso, proprio il vocalist dei Coldplay, dunque, chiede a Cave di togliere quei suoni di lattine e lamiere. Nasce così una ballata splendida che, dal vivo, a Verona (la nostra recensione), ha portato il pubblico alle lacrime.

Insomma, per non farla troppo lunga, perché qui ci sarebbe da scrivere un vero trattato, questo è un libro pieno di energia, vita, ricerca di redenzione per espiare una colpa che Cave sente non tanto in quanto colpevole per la morte del figlio – Arthur è precipitato da una scogliera – ma perché si sente incapace di proseguire la propria esistenza, dandole ancora una volta senso. Una perdita che avvolge tutto di nero, che sembra far precipitare il mondo. Il senso di vuoto, di spaesamento, e di inutilità che si respira in quelle parti del libro è angosciante, ma non è fine a se stesso. Tutto, infatti, è destinato a diventare nuova linfa vitale. E succede con “Carnage”, altro album che segna un prima e un dopo nella sua produzione. In che modo? Non dovete far altro che leggere questo volume… e lo saprete.

Articolo di Luca Cremonesi

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