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Piero Pelù book

Piero Pelù “Spacca l’infinito. Il romanzo di una vita”

Il racconto dell’artista alterna la sua storia personale e familiare ai grandi avvenimenti del Novecento

Il 16 febbraio 2021 è uscito il terzo libro di Piero Pelù intitolato “Spacca l’infinito. Il romanzo di una vita”, edito da Giunti. Scritto durante il primo lockdown, il racconto dell’artista alterna la sua storia personale e familiare ai grandi avvenimenti del Novecento. Una narrazione che, come racconta ai microfoni l’autore, celebra il valore della memoria, meccanismo di salvaguardia della società sempre più inceppato. Piero ha raccontato tanto di sé in questo libro, e ancora nell’incontro pubblico a Firenze organizzato all’interno della rassegna “La città dei lettori“.

Memoria èuna parola assolutamente fondamentale, a cominciare dalla memoria che contengono i nostri cellulari. Hai un terabyte, wow. Però non ti ricordi di tuo nonno o di tuo padre che hanno fatto determinate cose, magari perché non ti è stato raccontato. Stiamo vivendo un momento in cui il significato delle parole può cambiare radicalmente. È una memoria che sta prendendo il valore dell’uso e consumo immediato. Non è un caso che si vedono ragazzi giovanissimi in veste di squadristi nazifascisti sfilare con passo dell’oca a Milano, come mi è successo qualche anno fa durante una manifestazione. Ero a lì per la seconda edizione di The Voice e mi ritrovo in mezzo a centinaia di ragazzi col braccio teso, il passo dell’oca e le croce celtiche. Pensavo potessero esistere solamente nei filmati dell’istituto Luce, invece li avevo davanti ai miei occhi, per giunta a colori e in 3D. Oggi ci troviamo di fronte a persone che evidentemente non hanno avuto un racconto completo di ciò che è stata la storia del Novecento italiano dal 1920 al ’45.

Piero racconta come questa tendenza consumistica si sia potuta invertire solamente con la riscoperta del valore del tempo, riappropriandosi di un momento per leggere, per ascoltare musica e in particolar modo per ascoltare gli altri.

Causa e complice il primo lockdown, ho avuto molto tempo da impiegare scavando nella memoria. Questa scrittura è nata da uno stato d’animo di frustrazione e di orrore, scaturito dalla privazione della nostra libertà. È venuta spontanea questa necessità di raccontarsi, di riscoprirsi attraverso tutto questo tempo a disposizione. Quindi il racconto da reportage di viaggi legati alla musica si è allargato, ed è diventato il racconto mio e di Firenze dal ’60 ad oggi e dalla fine dell’800 agli anni Sessanta per quanto riguarda la mia famiglia. Se io sono pacifista e obiettore di coscienza lo devo a mio nonno Mario, che da ragazzo del ’99 a diciotto anni fu sbattuto in trincea in Alsazia a combattere contro i tedeschi.

Per chi si prende la briga di osservare l’inanellarsi degli eventi sulla linea del tempo diventa possibile individuare i nodi di scambio che influenzano la vita, riverberando tradizioni, costumi e politica. Ed è solo a partire da quel momento possiamo comprendere davvero la realtà che ci circonda.

Con la pandemia noi siamo i privilegiati, siamo gli unici che possono permettersi dei vaccini gratis, le mascherine, tutte le misure fattibili che ci permettono di essere tutti quanti qua. In Brasile invece c’è un presidente negazionista a causa di cui non si sa nemmeno quanti morti hanno avuto e quando il contagio sarà circoscritto, quante varianti verrano fuori. Questo senso di globalizzazione legato al quotidiano imprevisto e all’ineluttabile è un sentimento del quale sarebbe una follia tentare di liberarsi. Puoi alzare tutti i muri che vuoi ma non puoi fermare il vento, come le idee e le grandi migrazioni e le mutazioni climatiche saranno il grande tsunami con cui le prossime generazioni dovranno fare i conti.

Chi mette in pratica l’esercizio della memoria non può che essere considerato un testimone, un portatore di un racconto prezioso.

La parola testimone ha un retrogusto di sopravvissuto, come la Segre o i partigiani, ultimissimi rimasti sopravvissuti al nazifascismo. Per quello ci ricolleghiamo alla memoria, perché ha bisogno del racconto. Anche io sono un po’ testimone e sopravvissuto qua della Firenze degli anni Ottanta, che oltre al fermento umano e artistico diffusissimo, aveva anche una forte presenza dell’eroina, introdotta molto probabilmente per distruggere la controcultura. Questo almeno si diceva negli USA, ed è stato evidente anche da noi dato che esplose come abuso proprio nel ’77, quando ci fu un movimento di protesta ancora più veemente rispetto al ’68. Ne hanno fatto le spese tantissimi amici ragazzi, uomini, donne e anche tanti artisti. Pazienza ce lo siamo giocati così, come il mio carissimo fratello Ringo de Palma. Le possibilità anche per me di finire in quel meccanismo son capitate decine di volte, ma a me non interessava perché il mio progetto era di creare qualcosa che mi facesse star bene, che mi facesse superare i miei fantasmi.

Non tutti i testimoni hanno avuto la fortuna di aver vissuto un momento storico fortunato come il nostro, perché dagli anni ’50 alle torri gemelle, quei 50 anni di “pace”, al netto del disastro dei Balcani negli anni ’90, di quella orribile storia troppo presto dimenticata, tutto sommato in Europa abbiamo vissuto un periodo abbastanza sereno. Certo i danni del colonialismo li stiamo pagando tutti, e questo sfruttamento ora ci sta portando il conto.

Il tema dell’insegnamento, il ruolo svolto da figure più o meno autorevoli nella vita del cantante, passando dalle maestre di scuola ai grandi musicisti della scena italiana.

Mi viene in mente una canzone bellissima di Paolo Conte che dice “il maestro è nell’anima, nell’anima per sempre resterà”. È il concetto per cui non sempre hai la fortuna di trovare l’insegnante giusto al momento giusto. È una figura fondamentale, il genitore ad esempio è il primo che ti insegna l’educazione, indirizzandoti verso un gusto.

Io ho avuto alcuni insegnanti davvero molto buoni, gli studi li ho fatti tutti a Firenze tranne la prima e seconda elementare che feci ad Ancona. Feci la primina e avevo una maestra che metteva un’ansia incredibile dell’esame per poter accedere alla seconda elementare dove ci saranno stati 50 figlioli, tutti boomers. Il maestro Picocco usava una canna di bambù, ci dava dei crepenti in mezzo al cranio che probabilmente mi hanno segnato. Da lì forse ho deciso di far musica. Cazzate a parte, ho avuto ottimi insegnanti come la Faini che mi ha portato per tutti i musei della città. Negli anni ’70 quella se ne andava a fare viaggi in Afghanistan. Insegnanti di musica veri e propri non ne ho proprio avuti invece. Non l’ho mai studiata. Quindi mi sono ritrovato a bestemmiare in aramaico su greco e latino prima al liceo Dante e poi al Michelangelo. Per fortuna lì ho iniziato a suonare veramente. Rispetto a quello che sto facendo oggi non ho mai avuto insegnanti specifici.

Anche una band come i Litfiba sono stata una fonte d’insegnamento pauroso, senza però dei codici fissi. Col tempo cominciai a capire tutto lo spazio di composizione, d’arrangiamento, umano. Perché una band è un microcosmo da cui possono scaturire cose bellissime e orribili. É una cosa che rifarei immediatamente. L’unica mancanza che sento è stata quella di un bravo insegnante di musica o di canto che mi potesse indirizzare in modo più tecnico ed evitarmi una cordite.

L’insegnamento più importante è quello che ricavi dai rapporti con le persone. Provando a capire gli altri e a cercare di farti capire dagli altri, sopportando quello che degli altri non ti va bene. Bisogna essere molto insegnanti di noi stessi. Vedo che chi ha avuto insegnamenti approfonditi nella musica naturalmente riesce a codificare uno spartito di un’opera o di una sinfonia. Io solo a vederlo mi viene la dislessia a ventimila. Però mi rendo conto che quando sei stato educato ad essere estremamente rigoroso ad interpretare i classici della musica classica, puoi avere qualche problema per inventare qualcosa dal nulla, per cui serve un livello di incoscienza totale.

Per un’artista è importante quindi l’insegnamento, ma anche accudire la parte di sé bambina, legata all’incoscienza e alla creatività, che con il passare degli anni è costantemente minacciata dalla norma sociale e morale. Piero non nasconde questo suo lato, anzi lo esalta nel libro come personaggio interlocutore.

Ho sempre cercato di mantenere una sorta di media costante d’infantilismo. Ora che ho figlie abbastanza grandi conto di recuperarlo sempre di più perché in fondo è anche la parte più onesta. Quando siamo bambini diciamo sempre quello che vogliamo facendo fare figuracce ai genitori. Nella scrittura ho rivissuto un viaggio in Marocco che ho fatto sette anni fa con due amici fiorentini, senza alcuna programmazione se non una guida cartacea. Siamo andati verso il Sahara spagnolo, una delle parti meno frequentate. Siamo arrivati in un paesino, Sidi-Ifni, completamente costruito in stile coloniale. Leggendo la guida ho scoperto che quel posto era una delle tappe in cui si fermavano negli anni ’30 i postali che partivano dalla Francia verso l’Africa occidentale, fino a Dakar e anche più a sud. Tra questi piloti postali che atterravano lì c’era un certo Antoine de Saint Exupéry, quindi mi sono esaltato talmente tanto che la mattina siamo andati alla pista di atterraggio del vecchio aeroporto, e abbiamo cominciato a fare un po’ di testacoda. É arrivata la polizia, però poi mi è rimasta dentro ‘sta cosa di Saint Exupéry e del Piccolo Principe, e così è venuto fuori questo personaggio in “Spacca l’infinito”, che è diventato un piccolo catalizzatore di storie. Le sue domande impertinenti a questi genitori inesistenti lo rendono pericoloso nel suo essere fuori controllo. È un tassello importante di questa storia, nonché l’aggancio giusto per esaltare l’anima infantile che c’è in me.

Articolo di Francesca Cecconi e Lorenzo Lo Vasco, foto di Francesca Cecconi e Lia Baccelli

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