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Rock'n'Soul

“Rock’n’Soul Storie di Musica e Spiritualità”

Una ricerca e un racconto che vanno oltre lo stereotipo dell’artista colto e poeta per navigare nel mare della spiritualità

Incontriamo Noemi Serracini in occasione della presentazione del suo libro “Rock and Soul Storie di Musica e Spiritualità”, Arcana Edizioni. Chi è Noemi? Perché scrive questo libro?

Una persona alla costante ricerca… che è forse anche il motivo principale per il quale ho scritto il libro. Per rispondere devo anche aprire una piccola parentesi su di me, sul mio percorso. Questo libro si chiama “Rock and Soul, storie di musica e spiritualità”. Allora parto proprio dalla fine, dalla spiritualità, che è un aspetto che è diventato nel corso degli anni centrale nella mia vita. Credo che la musica sia una delle forme d’arte più vicine alla spiritualità, al sentire divino, e quindi il motivo per il quale ho scritto questo libro è anche perché in qualche maniera volevo raccontare dei percorsi spirituali di artisti e artiste che amo, e che avevo il desiderio di scoprire, di approfondire anche dal punto di vista dei loro percorsi interiori.

La spiritualità ha molto a che fare con la propria interiorità, non necessariamente con aspetti legati al mondo della religione. Questo è un distinguo ancora oggi fondamentale da fare, perché se c’è una cosa che spesso tiene lontane le persone proprio dalla spiritualità è questo equivoco del pensarla e immaginarla come qualcosa di strettamente connesso alla religione, a cui si legano molte sovrastrutture e pregiudizi. Mentre parte degli artisti e delle artiste che ho affrontato in questo saggio non hanno a che fare in maniera diretta con la religione. Hanno fatto degli attraversamenti, dei passaggi, hanno vissuto delle fasi magari anche di conversione per poi virare verso altro, senza però mai abbandonare la visione interiore. La necessità di guardare al mondo attraverso una lente, che poi è quella fondamentale per poterlo leggere nel profondo, per poterlo sentire veramente il suono del mondo, come lo chiamerebbe Bob Dylan. Quindi la spiritualità è qualcosa che ci permette e ci consente di entrare in profondità nelle cose, di sviluppare, forse, anche una maggiore empatia rispetto all’altro.

Eppure, si dice che il Rock è la musica del diavolo…

Da un lato probabilmente è vero, se esiste un diavolo però, per convenzione, esiste anche un dio. Se c’è un inferno, c’è un paradiso e secondo me nel Rock è proprio così: ci sono entrambi. Ci sono artisti che hanno avuto e hanno raccontato musicalmente dei loro percorsi interiori molto travagliati, hanno portato nella musica i loro dolori, hanno avuto vite devastate, ed esperienze particolarmente intense col mondo delle droghe. Artisti che sono andati alla ricerca di paradisi artificiali, che sono discesi dentro loro stessi e hanno avviato esplorazioni dalle quali non hanno fatto ritorno. Ma che fortunatamente ci hanno lasciato l’eredità e l’eternità della loro opera. Ce ne sono altri che hanno fatto percorsi di discesa e sono poi risaliti riportando delle esperienze che sono state positive dal punto di vista musicale e delle loro stesse vite, dei loro racconti. Per esempio, penso a George Harrison come a un faro. Per me lo è stato nella realizzazione del libro, perché in parte è dovuta anche a lui questa mia passione rispetto al tema musica e spiritualità, e se vogliamo lui è anche quello che ha sdoganato certi aspetti della cultura e spiritualità orientali nella musica occidentale. Credo ci si debba emancipare da questo concetto di Rock come musica del diavolo. Bisogna aprire lo sguardo e lasciarsi attraversare da percorsi che sono stati e sono tuttora estremamente luminosi e suggestivi, nonché di grande ispirazione.

Tu sei riuscita ad andare oltre lo stereotipo dell’artista colto e poeta per navigare nel mare della spiritualità, questo perché anche tu fai un percorso personale di meditazione, di ricerca introspettiva. Ne parli attraverso la conversazione con Matthew Malley (ex bassista dei Counting Crows), quindi ci puoi dire qualcosa di questo? Ti ha aiutato ad affrontare l’argomento della spiritualità di artisti, che poi sono uniti da un fil rouge ma sono anche artisti molto diversi tra loro?

Pratico la meditazione da alcuni anni e volutamente in realtà non ho messo all’interno del saggio la mia esperienza diretta, se non in modo marginale, perché non volevo e non vorrei che condizionasse in alcun modo lettrici e lettori. Io stessa non sono stata condizionata dal mio percorso nell’osservare esperienze diverse dalla mia. Anzi, credo che la spiritualità sia qualcosa che consente proprio di andare oltre i condizionamenti. Se c’è un valore aggiunto che la spiritualità può darci, anche attraverso la pratica della meditazione, è proprio il superamento dei condizionamenti, del giudizio verso gli altri e verso sé stessi.

Questo è stato proprio l’approccio che ho tentato io. Un approccio mai giudicante verso le vite di questi autori e autrici, piuttosto ho cercato di pormi in ascolto, che è un altro degli elementi chiave della spiritualità. Ognuno di loro – George Harrison, Patti Smith, Leonard Cohen, Joni Mitchell, Bob Dylan, Tori Amos, Cat Stevens, Sinéad O’Connor, Nick Cave, PJ Harvey –  oltre ad essere in qualche maniera legato da questo filo rosso della spiritualità, è caratterizzato da una grande capacità di ascolto, di sapere – ognuno a suo modo –  leggere la realtà, il mondo e di saper fare quella cosa in cui riescono solo i grandi artisti: partire da uno sguardo interiore, dal personale, per arrivare all’universale.

Questo credo sia quello che loro hanno saputo fare in modi diversi attraverso la loro musica, e quello che c’è di più personale nel libro è affidato alle parole di Malley, che è una persona meravigliosa e di una disponibilità disarmante, un artista con cui condivido la stessa pratica di meditazione. Da lui mi sono fatta raccontare come ci fosse arrivato, cosa rappresentasse per lui questo percorso. Lo scambio di e-mail che abbiamo avuto è stato talmente spontaneo e profondo che poi ho deciso di metterlo nel libro, perché mi è sembrato di grande ispirazione.

Esistono tanti tipi diversi di meditazione, ma lo scopo è sempre trovare una verità, qualcosa che restituisca un po’ di senso al nostro vivere quotidiano, fatto di cose che facilmente possono sfuggire. Probabilmente questo sguardo interiore, la consapevolezza del fatto che non siamo solo questo corpo, non siamo soltanto quello che tocchiamo, che vediamo, ma c’è qualcosa che va oltre e che appartiene, appunto, a una dimensione più sottile e che chiamiamo spirituale, è qualcosa che sicuramente illumina anche il nostro passaggio, e le nostre relazioni con gli altri.

Hai fatto un’operazione di selezione degli artisti di cui parlare, e avresti potuto sceglierne anche molti altri, e hai dato l’apertura a Harrison perché, come hai detto, è stato il capostipite nell’esporre il proprio percorso spirituale nel percorso artistico. Ti chiedo di darci un po’ di approfondimento su alcuni di questi artisti, noi ci incontriamo in occasione del Festival Eredità Delle Donne, quindi ti chiederò di due donne che sono sì artiste internazionali universalmente note, ma forse proprio la loro profondità, la loro dimensione spirituale non è stata così attraversata, e sono Tori Amos e PJ Harvey.

È stata una chiave istintiva a guidare la selezione degli autori e delle autrici che fanno parte del libro, non c’è una scelta razionale in realtà. Tori Amos è un’artista estremamente profonda, una cantautrice dotata di una sensualità misticheggiante. Ho imparato a conoscerla lavorando a questo libro, perché mi piaceva ma non ero mai entrata profondamente in contatto col suo vissuto e con i suoi testi, da quando ho iniziato ad avvicinarmi a lei è scattato qualcosa. Tori Amos è per me un’affinità elettiva, e mi affascina moltissimo. Ho letto con piacere la sua biografia (non ancora uscita in Italia) che si chiama “Resistance”, e la resistenza di cui lei parla è profondamente umana, estremamente artistica e necessaria proprio per sopravvivere e fare dell’arte un grido anche politico, perché per lei la musica è prima di tutto atto politico. In “politico” rientrano tante cose: l’attivismo, l’essere socialmente presenti nell’esporsi rispetto a determinati temi come la lotta contro le differenze di genere, le violenze, gli abusi sulle donne; c’è moltissimo anche nel difendere un’interiorità, una spiritualità che diventa politica nel momento in cui trasmette messaggi importanti come può aver fatto lei in ambito musicale.

Dal punto di vista strettamente religioso è curioso quello che accade nella vita di Tori Amos, in quanto lei è figlia di un reverendo metodista, e cresce in un’America molto conservatrice. Amos prende la sua esperienza e la porta agli estremi: arriva provocatoriamente a cantare, a raccontare il suo rapporto con Dio. Un brano emblematico su questo tema è proprio “God”, nel quale si rivolge a Lui chiedendogli se ha bisogno di aiuto, magari di una donna al suo fianco, perché a volte sembra confuso, sembra non sapere in che direzione orientare il suo sguardo. Questa cosa fa molto pensare rispetto alle domande che un artista si può porre su Dio.

Lei parla delle sue muse, dell’ispirazione come qualcosa che arriva. Queste muse sono delle divinità che ci parlano, che possono veramente essere presenti ovunque, la cosa fondamentale per sentirle è stare in ascolto. Ritorna quindi il tema dell’ascolto come qualcosa che va al di là della percezione materiale e si esprime a un livello superiore e più profondo, è una relazione tra noi e il mondo. Credo che Amos abbia espresso nel suo percorso questo tipo di racconto, questo tipo di esperienza, che contiene la sua percezione della vita. C’è un altro elemento chiave che la rappresenta e che ho trovato come punto di contatto tra gli artisti e le artiste del libro, ed è quello della trasformazione.

Questi autori, e lei in particolare, sono capaci di trasformare esperienze di dolore in strumenti quasi di catarsi. Tori Amos è riuscita a rielaborare la violenza sessuale che ha subito attraverso la musica. È stato un percorso di grande fatica e sofferenza durato alcuni anni, che le ha permesso di riemergere artisticamente e musicalmente, e di trasformare il dolore in creazione. Qualcosa di potentissimo musicalmente, e credo che questo sia un elemento fondamentale, perché come lei, anche Patti Smith nel dolore del lutto, della perdita, trova un modo per indirizzare la sua poetica. Quando un artista riesce, come sono state capaci di fare loro, a prendere il dolore e a farne un’opera d’arte, credo sia un messaggio potentissimo per noi che stiamo a guardare, ad ascoltare. Magari non abbiamo la stessa capacità di trasformare una sofferenza in canzone, in un quadro, in un’opera, ma sappiamo che possiamo comunque trasformarla in qualcos’altro e quel dolore ci può restituire anche una forma di bellezza se rielaborato. Le esperienze di queste autrici sono centrali anche per questo motivo, perché ci parlano, ci raccontano come la nostra vita è, in tutte le sue forme, portatrice di bellezza.

Il lavoro su PJ Harvey è stato più complicato, perché non è un’artista che racconta molto di sé, non si è aperta con i giornalisti o con il pubblico, non dichiara esplicitamente un tipo di credo o di fede, ma è un’artista estremamente profonda. La spiritualità in Harvey è molto legata allo sguardo con il quale attraversa il mondo. Lei stessa si definisce un’esploratrice dell’animo umano, ed entrando nella sua musica e nella sua poetica si ritrova molto questo aspetto dell’esplorazione, che la porta a realizzare album viaggiando e a scrivere poesie.

Un altro aspetto in comune tra questi artisti è che spesso non sono solo autori musicali, ma anche scrittori (di poesie, romanzi, sceneggiature). PJ Harvey è anche una poetessa brava e dotata. È la sirena del rock, così viene chiamata da qualcuno, e questo termine la rappresenta bene, è come una creatura leggendaria, metà donna metà pesce, un aspetto che ritrovo nella sua immagine e nella sua poetica acquatica.

La lingua inglese approccia con un rispetto maggiore ai testi degli artisti musicali, li chiama lyrics, liriche. Sono proprio vere liriche i testi degli artisti che tu citi, io penso per ognuno di loro si può dire questo: che la parola è comunque uno strumento tanto quanto la composizione musicale.

Sì, i testi di questi autori e autrici sono lirici. La parola è uno strumento di indagine, di analisi, di racconto, di trasformazione ed è anche uno strumento di salvezza.

Così come lo sono anche i silenzi e le pause che sono dentro le loro canzoni.

Tu citi i silenzi… il silenzio è il modo migliore per ascoltare il suono del mondo, e questa è una cosa che ho imparato negli anni. Ho imparato tantissimo anche grazie alla musica, all’esperienza e alle parole, soprattutto a quelle scritte da Bob Dylan, ma anche da Franco Battiato. Lui non è nel mio libro, ma è il più spirituale degli autori italiani, ed è un artista che del silenzio ci ha raccontato molto.

Grazie Noemi 🙂

Articolo e foto di Francesca Cecconi

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