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Stephen Davis “Duran Duran. Please Please Tell Me Now”

Biografia di una band nel nostro Paese non è forse mai stata capita appieno

L’autore è una vera garanzia, perché si tratta di quel Davis che, anni fa, scrisse “Il martello degli dei”, monografia di riferimento per conoscere il mondo dei Led Zeppelin.  Dunque, si parte bene. E non è cosa da poco se consideriamo che i Duran Duran, almeno nel nostro Paese, non sono forse mai stati capiti appieno. O meglio, furono vittime di quello che Davis non nasconde mai in tutte queste pagine, e cioè il lato glamour, modaiolo e spensierato che si voleva regnasse incontrastato, come stile, negli anni ’80.

Ed ecco che leggere “Duran Duran. Please Please Tell Me Now” (edizioni Il Castello, traduzione di Sara Boero) biografia di un gruppo di quel decennio è davvero spaesante, e per certi versi molto strano. D’altronde il tempo è passato, e i tanto criticati – al tempo – anni ’80 oggi sono storia di 40 anni fa. Dunque, da qualche parte bisogna cominciare a raccontare anche quest’epoca.

Ma è anche vero che, abituati a leggere degli anni ’60 e ’70, e cioè di un mondo dove politica, impegno, musica come artigianato, e come capacità autodidatta di suonare, erano le basi sulle quali si sosteneva il mondo delle sette note, e dei suoi protagonisti, spaventa. O meglio, dicendola alla Sartre, l’impegno era l’essere del mondo musicale, e non solo ovviamente. Mentre, poi, negli anni ’80 abbiamo vissuto l’inizio di uno spaesamento proprio della nausea esistenziale. Diciamola per dire, vista così sembrerebbe pure una cosa positiva, invece era solo un distacco da tutto quello che era stato un impegno così grande, che aveva portato a pensare altrettanto in grande e, per chiudere con le citazioni colte, di conseguenza a sbagliare in grande (Heidegger docet).

Ora, anche quest’altra cosa va detta, e ricordata per bene. I Duran Duran in Italia hanno avuto una fortuna strana. Erano la band dei paninari; erano il tormentone di Enzo Braschi al Drive In con la famosa storpiatura di “Wild Boys”, in un non meglio identificato Uop boys che sapeva di slang da paninaro. Erano la band che ascoltava One di Bim Bum Bam quando si prendeva gioco di un giovane Bonolis; erano i cinque onnipresenti su Cioè, mensile per ragazzini e ragazzine che cominciavano a essere acquistati e compromessi dalla mutazione antropologica di pasoliniana memoria. Ecco, da noi, se ben ricordate, all’epoca, i Duran Duran erano quella roba lì. C’è da dire che in Italia di buona musica, negli anni ’80, ne avevamo da vendere. Dal Punk alla New Wave, passando per l’Underground, e per le primissime avvisaglie, sul finire degli anni ’80, del Hip Hop e del Rap delle Posse. Insomma, non ci mancava nulla, e così potevamo snobbare i Duran Duran e relegarli come super ospiti a Sanremo.

Il merito di questa monografia, invece, è di farci capire come nel resto del Mondo la situazione fosse ben diversa. I Duran Duran si collocano fra l’epica del Punk inglese, la chitarra di Gilmour che, con la giusta lentezza, accompagna la fine del Punk appunto, e l’avvento del New Romantic, musica fondatrice del Britpop. Senza dimenticare l’elettronica, e la voglia di ballare. E così si scopre che il quintetto di Birmingham ne ha passate prima di trovare la quadra. Di gavetta ne hanno fatta molta, e in ogni dove (dalle birrerie ai locali fashion inglesi, fino agli stadi e poi alle feste private). Allo stesso tempo prima di trovare il giusto sound, il mood dei vari dischi e lo stile, c’è voluto tanto lavoro, passione e dedizione. Il tutto in un’epoca dove, dopo i Beatles, solo i Led Zeppelin e i Rolling Stones, avevano creato un fenomeno di massa quasi incontrollabile.

I Duran Duran, dunque, nel resto del mondo non sono stati solo ed esclusivamente la band dei teen di buona famiglia, e neppure quella dei giovani rampanti e intraprendenti. Se poi si pensa che “Rio”, il loro capolavoro, è il secondo album della loro discografia, mentre “Notorius” è un album della decadenza (si, quel “Notorius”) capiamo bene che questa storia merita davvero di essere letta. Inciso: ricordo una splendida lezione di Morgan, ad X-Factor, su “Notorius” e, soprattutto, su quanto i suoi Bluvertigo siano debitori a quell’album. Recuperatela, ma non è facile…

Poi c’è tutta un’altra storia che, però, nel finale – a essere sinceri – si sfilaccia un poco. Non so se Davis abbia deciso di sorvolare, veloce, su questi ultimi anni per evitare di raccontare, nel dettaglio, la lenta decadenza di una band che ha contribuito a cambiare lo star system della musica internazionale. E così sulle liti dei componenti del gruppo, negli anni ’90 e nei primi anni ’00, si passa via veloci. Il libro, qui, perde un poco di quell’intensità che invece domina tutte le prima 250 pagine. Molto interessante il rapporto della band con MTV, ma anche con l’arte dei videoclip, oltre alla dinamica dei remix per gli Usa (che vi consiglio di ascoltare, per me sono stati una vera bella scoperta). Altro passaggio importante, soprattutto se inquadrato con quello che oggi succede abitualmente in ogni concerto e tour che si rispetti, è l’avvento del merchandising, e anche qui i nostri cinque eroi sono stati come i greci nell’assalto di Troia: tenaci, costanti e furbi.

In questo libro, in conclusione, si parla di un mondo musicale che voleva cambiare e che, forse, doveva cambiare dopo i fasti della Golden Age degli anni ’60 e ’70. E lo ha fatto diventando quel mix di musica e spettacolo che, oggi, è alla base del sound commerciale. Come tutte le imprese, anche questa necessitava di un’apripista, e di un agnello sacrificale. I Duran Duran, per molti anni, sono stati questo. Pertanto – oltre che per alcuni album – meritano rispetto, molto di più di quello riservato loro da paninari, Bim Bum Bam e posterini di Cioè.

Articolo di Luca Cremonesi

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