07/05/2024

Steph Strings, Milano

08/05/2024

Yes, Padova

09/05/2024

Eugenio Sournia, Pisa

09/05/2024

Hugo Race Fatalists, Firenze

09/05/2024

Hugo Race Fatalists, Firenze

09/05/2024

Bengala Fire, Roma

10/05/2024

Nanowar of Steel, Perugia

10/05/2024

Peter Kernel, Busto Arsizio (MI)

10/05/2024

Traindeville + Indaco, Roma

10/05/2024

Dirotta Su Cuba, Firenze

10/05/2024

Marta Del Grandi, Madonna dell’Albero (Ravenna)

10/05/2024

Elephant Stone, Bologna

Agenda

Scopri tutti

C’mon Tigre intervista

Collettivo musicale che fonde Afrobeat, Jazz, Tropicalia, Elettronica e Psichedelia

C’mon Tigre è un progetto, un collettivo, che, grazie alla loro originalità compositiva, si è affermato nel panorama italiano e straniero. La loro scelta è quella di non presentarsi mai come singoli ma solo esclusivamente come C’mon Tigre, questo per un’intenzione precisa: far sì che sia esclusivamente la musica a parlare scardinando ogni velleità personale e atavico individualismo. Una scelta, ai giorni nostri, tanto nobile quanto potente, che lancia inconsapevolmente un messaggio preciso: la musica è identità, comunione e condivisione, è forza creativa e chi la crea non è che un messaggero, un portavoce di un qualcosa di più grande. Li abbiamo raggiunti al telefono per parlare del loro ultimo album “Habitat” (la nostra recensione) e di molto altro.

“Habitat” ha una forte componente naturalista, a differenza di “Scenario”, che esplora più una dimensione umana. C’è un motivo particolare che vi ha spinto verso questo tipo di dimensione?
Certo, ci sono stati, in realtà, più motivi legati all’esperienza e alle nostre necessità in quanto persone.“Habitat” è un disco che ci siamo sentiti di scrivere in quel modo, in quel luogo e in quel periodo specifico per sviscerare quel tipo di emozioni e immaginari. Rispetto a “Scenario” la stesura di “Habitat” è stata una conseguenza quasi naturale. Come dicevi, “Scenario” è un disco legato all’umano, grazie al lavoro di Paolo Pellegrin, che attraversa l’aspetto umano sotto molti punti di vista.“Habitat” è, invece, una zona quasi immaginifica, un mondo molto energetico, di benessere e fantasia. Ci siamo voluti distaccare per inventarci uno spazio di comfort, di colore ed energia vitale. La prima traccia del disco, infatti, si chiama “Goodbye Reality” è un invito ad abbandonare il razionale per lasciarsi trasportare da energie forti, vitali e costruttive.

Tra “Scenario” e “Habitat” è passato poco tempo, un anno. È stata un’ispirazione fulminea o c’era già qualcosa in fase embrionale?
No, c’era già qualcosa. Infatti, per esempio, su “Scenario” c’è la traccia che si chiama “Kids Are Electric”, che facendo riferimento alle influenze musicali, già anticipava quello che era il sottofondo sonoro dell’idea che avevamo di “Habitat”, ovvero, l’ispirazione alla musica brasiliana, principalmente, quindi a quel tipo di ritmica, di percussioni e a determinati strumenti. Anche in “Scenario” abbiamo messo un seme di quello che sarebbe stato poi il lavoro successivo. Per cui sì, sono uno il proseguo dell’altro, e in un tempo abbastanza stretto, soprattutto per i nostri ritmi, che mediamente sono un po’ più blandi, un po’ più rilassati.

Un’altra cosa che mi colpisce dei vostri pezzi è che sono estremamente evocativi, li definisco quasi tridimensionali, nel senso che toccano non solo il senso dell’udito, ma hanno richiami visivi fortissimi. Quando scrivete, quando componete i vostri brani, ricercate questa cosa oppure vi viene naturale?
È qualcosa che ci viene naturale. Cerchiamo di creare un corrispettivo visivo, perché per noi è come la chiusura di un cerchio. Nella nostra produzione musicale totale, ci viene naturale, per nostra attitudine. È come se la musica, semplicemente la musica, fosse scritta per delle storie immaginate. La definizione che hai dato, tridimensionale, è davvero molto bella perché sicuramente la musica, come la viviamo noi, che spesso accompagniamo alla percezione visiva, quindi all’arte visiva, è qualcosa la cui matrice più importante è quella comunicativa, piuttosto che la tecnica o altro. Per cui che arrivi questo, che dietro delle note o delle armonie sia costruito un immaginario è la nostra intenzione.

In “Habitat” c’è “Sento un morso dolce” con il featuring di Giovanni Truppi che ha un testo molto particolare…
Il testo è stato scritto completamente da Giovanni ma posso dirti che l’intenzione di partenza è stata quella di avere un flusso di coscienza, una sorta di seduta psicoanalitica. L’idea iniziale era quella di avere un video, come poi è stato, di Donato Sansone, bravissimo illustratore e disegnatore torinese, e quindi un testo che parlasse di un flusso di coscienza, di una serie di riflessioni molto intime e anche molto veloci. La parte musicale doveva essere molto ritmica, sbilanciata sull’elettronica e sui ritmi di samba e abbiamo pensato che un testo di Giovanni e un video di Donato si sarebbero perfettamente. Giovanni, oltre essere un amico è un artista che stimiamo infinitamente e questo brano è stato per noi il primo contatto con la lingua italiana, mai sperimentata prima. Alla fine è stato un po’ un “vediamo che succede”, sia per noi che per Giovanni che si è trovato a lavorare in una modalità differente dal suo solito. Questo riassume un po’ l’idea che abbiamo di collaborazione, ovvero mettere sul tavolo ognuno le proprie idee, lavorarci e vedere che forma prende il tutto.

Avete sempre avuto molti featuring nei vostri album, e anche nell’ultimo disco ce ne sono e di molto importanti.
Arricchiscono molto, riallacciandomi a quello che dici tu, la tavolozza di colori, perché ovviamente allargano lo spettro. Una delle idee di base era che fosse un disco multilingue, quindi che non fosse solo in inglese o francese, dando questa idea di spazio, un habitat come luogo di benessere dove può accadere ogni cosa. Le collaborazioni sono il carburante principale che tiene viva la fiamma, perché ti aiutano anche a mettere in discussione il tuo lavoro, a vederlo sotto altri aspetti, e questo è successo con quasi tutte le lavorazioni. La cosa bella è che tutti si sono dedicati molto al lavoro dei brani, operazione sempre molto delicata perché si deve raggiungere un contatto e un’intimità che non è detto che si raggiunga, quindi il fatto che uno si conceda e riesca a dare molto, lavorando sull’intuito di un’altra persona crea un tipo di relazione bellissima. Per capire cosa intendo quando parlo di mettere in discussione il lavoro grazie alle collaborazioni, abbiamo lavorato con Xênia Franca che ha rivoluzionato il brano rispetto l’idea iniziale, sia riguardo l’interpretazione che la parte vocale e le armoniche che ha inserito. Se si pensa al primo ascolto e all’ascolto finale ci si rende conto di quanto sia potente il potere della condivisione. Anche collaborare con Seun Kuti è stato entusiasmante, per noi ha significato, un po’, la chiusura di un cerchio.

Il sound dei C’mon Tigre attinge molto dall’Afrobeat, ma anche dal Jazz, dalla Tropicalia e dall’Elettronica, io però sento anche qualche rimando alla primissima scena progressive, quella che scaturisce direttamente dalla Psichedelia, è un’interpretazione corretta?
Sì, assolutamente, noi traiamo ispirazione da generi diversi, anche molto distanti tra loro, che poi in realtà così distanti non sono. Prendiamo per esempio la musica del continente africano rispetto alla musica dell’America del sud, si scoprirà che questa, grazie anche allo spostamento delle persone e quindi alla condivisione delle culture, ha più punti in comune di quanto non si sia portati a pensare.
Riguardo la tua visione, noi siamo da sempre “onnivori” musicali, ascoltiamo e abbiamo ascoltato generi senza alcun tipo di confine. Avendo anche una certa età abbiamo assorbito negli anni ascolti molto diversificati tra loro, e credo che ogni volta che ascolti qualcosa, questa in qualche modo ti rimanga un po’ “attaccata”. La Psichedelia è un genere che ha anch’esso forti richiami visivi che agevolano e aiutano l’immaginazione.

Veniamo ai live, si è conclusa, con la data di Pordenone (il nostro report), il tour dei club in Italia. Una cosa che mi ha colpito molto, a parte la presenza scenica, il gioco di luci, è stata la non interazione con il pubblico. È una scelta precisa?
È sì una scelta ma anche un’intenzione naturale. Abbiamo sempre immaginato la nostra performance live come l’idea di uno spettacolo dove la musica prevalesse su tutti, per questo abbiamo deciso di non ricavare mai momenti di interazione diretta con il pubblico. Preferiamo sia la musica a fare da veicolo, perché per noi è sempre stato così, anche parlando sempre e solo di C’mon Tigre e noi di noi come persone. Il canale comunicativo dei C’mon Tigre è, appunto, la musica e il suo corrispettivo visuale.

Per terminare la nostra intervista se doveste definire il progetto C’mon Tigre, con un solo aggettivo, quale sarebbe?
Di primo acchito ti direi “curiosi”, perché il motore creativo dei C’mon Tigre è proprio la curiosità. Ci piace lasciarci ispirare da diversi mondi, generi, cercando di avere, ovviamente, il nostro stile ma muovendoci in maniera molto libera.

Articolo di Silvia Ravenda
Foto di Simona Rossi

© Riproduzione vietata

Iscriviti alla newsletter

Condividi il post!