
Non lo nego: l’album “Out of the Fire” è stata per me una vera rivelazione come ascolto (la nostra recensione). Potente come il maestrale che piega gli alberi in Sardegna, il nuovo album solista del chitarrista sardo Francesco Marras ci ha regalato un disco di Metal suonato con classe e ricco di partecipazioni interessanti. Siete curiosi di saperne un po’ di più su come è nato quest’album? Magari anche di rubare qualche dettaglio tecnico? Se la risposta è sì siete nel posto giusto!
Partiamo da una delle domande più classiche: come nasce questo album?
“Out of the Fire” è nato in un modo un po’ diverso rispetto a “It’s Me”, il mio precedente disco solista uscito nel 2022 (la nostra recensione), perché è una sorta di raccolta che contiene brani registrati, prodotti e mixati negli anni precedenti, come “Out of the Fire”, “Through My Veins”, “Here and Now” e “More Then Life”. Questi quattro pezzi li avevo già registrati diversi anni fa, ma non li avevo mai pubblicati per timore, perché non mi sentivo ancora pronto a presentarmi anche come cantante. A questi brani si sono aggiunti altri, scritti e completati solo pochi mesi fa, come “Code Red” e “Rise from the Ashes”. Volevo mettere un punto fermo, per non perdere i brani validi realizzati in passato e presentarli al pubblico con il disco di quest’anno.
“It’s Me “, invece, era un lavoro molto omogeneo, tutto composto, registrato e prodotto nello stesso periodo. Questo invece è meno uniforme: ci sono brani più metal e altri più hard rock. C’è una sorta di dualismo tra il Metal più oscuro dei pezzi vecchi e quelli nuovi più Hard Rock. Ogni volta che coinvolgo un ospite alla voce, cerco sempre di cucirgli addosso un brano che si avvicini al suo stile, così da esaltarne al meglio le potenzialità e la vocalità.
Io compongo e scrivo continuamente, ho un cassetto pieno di brani, influenzati da tanti generi: dal Metal all’Hard Rock, passando anche per pezzi strumentali. Alcuni li potrei proporre ai Tygers of Pan Tang, essendo più New Wave of British Heavy Metal, con sonorità diciamo più anni Ottanta. Altri sono più pesanti, magari scritti con una chitarra a sette corde o accordata un tono sotto, quindi meno adatti ai Tygers.

Mi ha colpito molto l’uso delle varie voci nel disco. Sembra una scelta rischiosa e invece l’alternanza funziona molto bene. È nata in base alla diversità delle composizioni, come dicevi?
Gli ospiti li ho invitati perché li stimo sia a livello personale che artistico. Sono tutti cantanti straordinari. Gianni Pontillo, ad esempio, cantante dei Victory, l’ho conosciuto durante la crociera metal dell’anno scorso con i Tygers of Pan Tang, da Miami alla Repubblica Dominicana. Ho visto i Victory dal vivo e me ne sono innamorato. Il bassista, tra l’altro, è un mio amico con cui ho anche suonato. Gianni ha una voce che adoro: graffiata, potente, molto anni Ottanta. Gianni vive in Svizzera, ma parla un po’ di italiano, quindi abbiamo anche potuto interagire facilmente. È una persona fantastica. Quando avevo “Carnival of Darkness” in fase di lavorazione, ho subito pensato che la sua voce sarebbe stata perfetta per quel brano.
David Readman, invece, l’ho conosciuto in Germania, grazie al bassista Martin Engelin, molto famoso negli anni Ottanta per aver suonato con la Klaus Lage Band. Martin mi ha coinvolto in molti live, oltre 50 concerti, e nel suo progetto “Go Music”, che riunisce musicisti di alto livello per performance sempre diverse. Si decidono le canzoni, ma non si sa come verranno suonate. È un progetto molto molto particolare, ovviamente, con i musicisti di quel livello lì qualsiasi cosa viene bene, è una figata. Lì ho conosciuto anche Steven Mageney, cantante dei Crystal Ball, e appunto David Readman, che seguivo già per i suoi lavori con Pink Cream 69 o con i Voodoo Circle. Poi c’è Jacopo Meille, cantante dei Tygers of Pan Tang, eccezionale nel contesto dell’Hard Rock anni Settanta, stile Led Zeppelin. Su “The Heroes of the Light” c’è invece Daniele Reda, mio carissimo amico, ex cantante degli Screaming Shadows, band metal sarda con cui ho fatto diversi dischi. Daniele non ha partecipato solo come cantante, ma ha anche realizzato la copertina dell’album.
Parliamo ora del processo creativo: come nascono le tue canzoni? Parti dalla musica o dalle parole?
Oggi non parto più dalle parole. Quando ero più giovane succedeva, ma con il tempo ho capito che era complicato. Ora i brani possono nascere in modi diversi, ma di solito compongo la musica, poi realizzo una demo con la mia voce spesso con un testo in fake english. In pratica prendo le parole di una canzone che mi piace e le riorganizzo in modo casuale, così riesco a cantare con un senso ritmico. Solo in un secondo momento scrivo il testo definitivo, in questo modo c’è più musicalità e le parole vestono meglio la canzone.
Ti spiego il mio punto di vista. Soprattutto per noi italiani il significato dei testi in inglese non ha grande importanza, magari perché non siamo bravissimi in inglese anche se sicuramente adesso le nuove generazioni stanno molto migliorando e progredendo. Quando ero bambino, ho iniziato ad ascoltare Metal a otto anni, lo ascoltavo per l’energia che trasmetteva la musica, il timbro, il cantato. Il significato passava in secondo piano. Anche artisti come Ian Gillan hanno dichiarato che, in una vecchia intervista promozionale per l’album “The Battle Rages On…”, per l’Hard Rock i testi non sono così cruciali. (Se lo sente Jacopo, apriti cielo! [ride]). Ma è il mio punto di vista.
Domanda legata alla strumentazione. Ci sono degli ingredienti particolari per il tuo suono? Hai un suono che credi ti contraddistingua?
Ho un suono ideale in testa e cerco di raggiungerlo con ciò che ho a disposizione. In “Out of the Fire” c’è una grande varietà timbrica: i quattro brani più vecchi li ho registrati a Sassari, nel mio vecchio studio, con un Marshall JCM 2000 e cassa 4×12, microfonata con SM57, Sennheiser 421 e, se ricordo bene, con un microfono a nastro, questi tre microfoni tutti blendati tra loro hanno dato il suono che senti. Le chitarre ritmiche sono state registrate in stereo, direttamente nel JCM 2000, senza nessun pedale o effetto tra la chitarra e l’ampli. Un suono puro, che non ho voluto toccare.
Poi ho preso il Kemper, utile per i live e per la versatilità: oggi i chitarristi viaggiano leggeri. Tutto il contrario di prima dove i chitarristi volevano un muro di Marshall. È fondamentale avere un suono costante, perché nei festival la backline varia sempre. Con il Kemper, ho sempre il mio suono e i miei effetti, anche se mi piacerebbe poterci lavorare di più. Quando ho registrato gli altri brani di “Out of the Fire” con il Kemper, ho cercato dei suoni, però non mi sono neanche assillato troppo, perché, purtroppo, queste macchine hanno talmente tanti suoni che o decidi di perdere la vita cercando il suono perfetto al 100%, oppure suoni, componi e scrivi: insomma fai quello che, da musicista, dovresti fare.
Comunque, il mio suono ideale resta quello del Marshall JCM 2000, perché il suono del Marshall è il suono del Metal e dell’Hard Rock, con una 4×12 dritta, con coni V30 green back, magari con un overdrive davanti e, imprescindibile, un delay. Questa è la mia idea di suono, però dire che proprio c’è un suono che mi contraddistingue, purtroppo no. Questa è una prassi che si è persa negli anni, perché prima gli artisti e i musicisti cercavano proprio un sound, le band cercavano un sound, qualcosa che, come hai detto tu, li rendesse riconoscibili, e lo stesso facevano i chitarristi. Cioè, se senti Ritchie Blackmore, lo capisci dalla prima nota che è lui, non solo dal tocco, ma anche dal suono. Hanno fatto tutti una ricerca per andare nella direzione del proprio suono. Oggi invece, purtroppo, con queste macchine bellissime e con l’evoluzione dei chitarristi incredibili di oggi tutti hanno questo suonettino tipo fusion, bellissimo, questa specie di crunch che ti chiedi: ma da dove cazzo sta uscendo questo suono? Diciamo che si è molto standardizzata la sonorità della chitarra elettrica nell’Hard Rock.
Hai avuto influenze particolari durante la lavorazione dell’album? Qualche disco di riferimento?
No, un disco in generale no. Però, ovviamente, per ogni singola canzone posso pensare a qualche artista che ha delle sonorità simili o a delle canzoni in particolare che magari mi hanno ispirato, che mi hanno portato a scrivere quei brani. Alcune canzoni, di quelle molto vecchie di cui ti parlavo all’inizio, hanno degli arrangiamenti un po’ più particolari, un po’ più ricercati, perché ad esempio, c’è l’uso della chitarra acustica, del bouzouki, e quindi qualcosa di un po’ più etnico. Voleva essere un sound più moderno, un po’ più ricercato. “It’s Me”, invece, come detto prima, era un disco che, essendo più omogeneo, era più ispirato a qualcosa tipo Rainbow o Deep Purple, anche perché comunque c’era l’Hammond sempre molto presente.
Progetti futuri?
Non ho pianificato niente perché ho bisogno di far crescere anche quello che ho già fatto. Se faccio continuamente dischi, però il bacino d’utenza è sempre lo stesso, otterrò sempre più o meno gli stessi risultati. Quindi, ad esempio, quest’anno, a marzo, per la prima volta in assoluto, ho suonato dal vivo i brani dei miei due dischi solisti “Out of the Fire” e “It’s Me”, perché insieme a Martin Engelin abbiamo organizzato un minitour in Germania di sei date. Una cosa fantastica, bellissima, perché finalmente ho avuto la possibilità di portare questi brani dal vivo. Grande crescita e anche grande sacrificio, ovviamente, perché per la prima volta in assoluto non solo ho dovuto cantare un intero concerto e suonare la chitarra, ma ho dovuto farne sei di fila senza un giorno di pausa. E questa è già una cosa dura per un cantante professionista, figurati per me. Sono un chitarrista professionista, però come cantante sono lontano, anche perché non canto tutti i giorni, non ho una band in cui canto sempre. Quindi, per il momento, voglio continuare a concentrarmi un pochino sulla promozione di “Out of the Fire” e, probabilmente, nei prossimi mesi riuscirò a far uscire qualche altro video. Dopo l’uscita del disco ho pubblicato il video di “Code Red”, ed è probabile che riesca a far uscire anche i video di “Here and Now” e “Carnival of Darkness”, incastrandoli tra i tanti impegni come quelli con i Tygers, ad esempio, visto che anche con loro stiamo lavorando a nuovo materiale e suoniamo tanto dal vivo.
Ho tante cose nel cassetto, tantissime. Mi piacerebbe moltissimo anche riprendere il discorso degli Screaming Shadows, che è la mia band di sempre, con cui tra l’altro nel 2021 abbiamo realizzato un disco, “Legacy of Stone” (la nostra recensione) che per me è un capolavoro. Vorrei chiarire che io sono estremamente esigente con me stesso, quindi se dico che è bello, lo ritengo veramente molto bello: è un disco che ho composto interamente io, l’ho prodotto, l’ho mixato e trovo le canzoni bellissime. Purtroppo non abbiamo avuto l’opportunità di promuoverlo a dovere, perché il 2021 era un anno veramente molto incasinato per via del Covid, e quindi abbiamo dovuto interrompere quello che stavamo facendo. Però spero presto di poter fare un nuovo disco di Heavy Metal con gli Screaming Shadows, perché è con quello che sono cresciuto.
Articolo di Daniele Bianchini
Foto di Francesca Cecconi